di REDAZIONE ECONOMIA
Come abbiamo sentito a lungo e continuiamo ancora oggi a sentire a Taranto, “Se chiude l’acciaieria, chiude l’intera città” lo stesso concetto è comune anche a 600 chilometri di distanza, a Terni in Umbria, e non cambia sopratutto se si parla con fornitori, sindacalisti o operai ma anche con i commercianti ed i semplici cittadini umbri, . Tutte e due le città hanno la stessa dipendenza dalla produzione dell’acciaio, ed in tutte e due le acciaierie c’è lo zampino della “zarina” Lucia Morselli, attuale amministratore delegato di ACCIAIERIE D’ITALIA ( ex Arcelor Mittal Italia, ex Ilva) in passato a capo dell’ AST- Acciai Speciali Terni.
Sullo stabilimento siderurgico di Taranto nell’ultimo decennio si è visto, scritto e raccontato di tutto e di più, comprese leggende metropolitane o articoli “a gettone” mentre la vicenda della AST- Acciai Speciali Terni, impianto industriale che è attualmente nelle mani della multinazionale tedesca ThyssenKrupp è passata quasi inosservata. Eppure nella scorsa primavera il gruppo tedesco ha deciso di mettere in vendita la “fabbrichetta” umbra dell’acciaio e nell’entrante mese di settembre, dovrebbe essere scelto l’acquirente interessato a rilanciarla e adeguarla agli standard ecologici del New Green Deal europeo.
Attualmente in gara a fronteggiarsi ci sono due gruppi stranieri (i cinesi di Bao Steel ed i coreani di Posco) e due gruppi italiani (i soliti Arvedi e Marcegaglia), con gli analisti che scommettono su un testa a testa finale fra i pretendenti italiani. Si prospetta quindi un settembre “caldo” per Terni e tutta l’Umbria, visto che l’acciaieria dà lavoro a 2.300 famiglie e contribuisce da solo a un bel pezzo del Pil dell’intera regione. Più o meno all’importanza dello stabilimento siderurgico di Taranto sulla provincia jonica.
La contesa made in Italy sullo stabilimento AST di Terni è anche un confronto fondamentale nell’acciaio nazionale. Il Mise infatti segue molto da vicino per il Governo una cessione che seppure “privata” rischia di comportare delle importanti ricadute sull’economia pubblica. Infatti dopo le crisi durature dell’ ex-ILVA di Taranto e della JSW di Piombino, non se ne può aggiungere anche una in Umbria: qualsiasi discussione sul tanto atteso Piano strategico siderurgico nazionale, in presenza di tre poli industriali siderurgici che lottano per sopravvivere e che hanno bisogno – chi più o chi meno – del supporto economico dello Stato, ha lo stesso valore delle opinioni sulle squadre di calcio e come sono allenate. Il presidente del Consiglio Mario Draghi ed il ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, che in carico i dossier sulle acciaierie, non possono permettersi l’apertura di un altro problema industriale, per non mandare in fumo le speranze di rilancio per l’acciaio made in Italy.
Purtroppo i bilanci degli ultimi anni di Taranto, Terni e Piombino, i tre principali centri produttivi dell’acciaio italiano registrano perdite su perdite, anno dopo anno. Analizzando il solo bilancio di esercizio 2020 dell’ex Ilva (cioè Arcelor Mittal Italia) , si riscontra che ha chiuso con un un pesante passivo di ben 265 milioni di euro di perdite, riuscendo a produrre appena 3,35 milioni di tonnellate d’acciaio invece degli 8 previsti ed annunciati dal piano industriale presentato da Arcelor Mittal che indusse il governo Gentiloni, in carica all’epoca dei fatti, a cedere l’industria tarantina al gruppo franco indiano.
Una perdita quella dell’acciaieria di Taranto amministrata ancora per un anno da Lucia Morselli, inferiore soltanto di poco a quella di Terni, dove l’AST l’anno scorso ha perso ben 151 milioni di euro ! Sul terzo gradino del poco edificante podio c’è poi la JSW Steel Italy Piombino di proprietà dell’altra multinazionale indiana, Jindal che in un anno ha perso quasi 60 milioni di euro in un anno. Numeri poco rassicuranti…, che illustrano lo stato di crisi dei tre poli industriali italiani più importanti. Una situazione incresciosa poichè il 2021 avrebbe potuto essere l’anno ideale per poter tornare agli utili e per rinnovare i vecchi impianti con dei nuovi altoforni aventi un impatto ambientale più ridotto.
Il mercato dell’acciaio quest’anno è in forse ripresa, grazie al balzo dei prezzi di vendita cresciuti in tre mesi del 40% arrivando a sfiorare a fine luglio i 1.890 dollari per tonnellata, allineandosi all’andamento delle altre materie prime. Secondo i dati della World Steel Association la produzione siderurgica mondiale rimane in crescita del 12,4% sui primi sette mesi del 2020 caratterizzati da molteplici lockdown. La ripresa dell’acciaio italiano è andata anche meglio: infatti da gennaio a luglio l’aumento è stato del 26,1%, recuperando i valori pre-Covid. Quindi, se si vuole rilanciare l’acciaio made in Italy bisogna farlo adesso o mai più.
Quattro aziende in gara per l’acciaieria di Terni
Entro ottobre dovranno pervenire alla ThyssenKrupp le offerte vincolanti dei quattro pretendenti dell’AST di Terni, considerato che il processo di cessione entra nel vivo adesso , e subito partirà la trattativa con i singoli pretendenti che hanno quasi concluso la fase di “due diligence” cioè quella fase in cui il potenziale acquirente verifica preventivamente quello che sta acquistando e quindi l’acquisizione si perfezionerà presumibilmente per inizio dell’ anno nuovo .
Fonti vicine alla trattativa intravedono uno scenario più probabile in cui saranno i due competitor italiani a contendersi l’Ast. Infatti Il gruppo cinese Bao Steel sconta un gap non da poco e cioè le avverse condizioni geopolitiche: Draghi ha traghettato l’Italia su posizioni fortemente filo-americane, smentendo le precedenti iniziative del suo predecessore Conte facilitatore dell’espansionismo economico cinese, e quindi in questo caso non si può escludere l’utilizzo del golden power di Palazzo Chigi – cioè un potere di veto esercitato del Consiglio dei ministri – in caso di offerta proveniente da Pechino.
I coreani di Posco, quinto gruppo mondiale, al momento non sembrano molto interessati al dossier AST, considerando che non hanno inviato a Terni i propri dirigenti per sincerarsi dello stato degli impianti, limitandosi ad una mera superficiale verifica contabile. Invio che invece c’è stato sia da parte di Arvedi che di Marcegaglia: a luglio entrambi i gruppi hanno mandato sul posto i propri uomini per un sopralluogo fisico oltre che virtuale. Dettaglio che rivela un interesse certamente superiore al duo sino-coreano.
Salvo sorprese dell’ultimo momento la competizione finale si dovrebbe giocare quindi fra Arvedi (Cremona) e Marcegaglia( Mantova ) dove potrebbe anche contare il “precedente Ilva” che riguarda il gruppo guidato dalla ex presidente Confindustria Emma Marcegaglia e da suo fratello Antonio, che nel 2017 era in cordata con ArcelorMittal per rilevare e rilanciare l’Ilva di Taranto. Nel 2018 l’ Autorità Antitrust europea obbligò il Gruppo Marcegaglia a ritirarsi dell’acquisizione e l’acciaieria finì nelle mani del gruppo franco indiano, con un risultato finale che tutti conosciamo, finiti a carico delle casse dello Stato.
L’operazione tuttavia fu comunque positiva per Marcegaglia che ricevette un risarcimento per la mancata partecipazione, ed ArcelorMittal si impegnò ad un triplice compenso ai mancati soci mantovani: 25 milioni per rilevare la quota della cordata di Am Investco Italy (poi diventata Arcelor Mittal Italia ed ora Acciaierie d’ Italia) , più altri 32 milioni per acquistare la quota di minoranza nella società tedesca Bremen e la sottoscrizione di contratti di fornitura d’acciaio a condizioni di favore (i Marcegaglia infatti sono attualmente specializzati nella lavorazione e trasformazione dell’acciaio invece che nella produzione). In definitiva un ottimo affare per la famiglia Marcegaglia, i cui profitti emergono sul bilancio 2018 del gruppo. Un affare meno positivo per le casse dello Stato.