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25 Novembre 2024 02:19

I visionari che raccontano le mafie

Tratto dal blog MAFIE del quotidiano La Repubblica, da un'idea di Attilio Bolzoni

di Roberto Saviano

Dov’è oggi la mafia? Come facciamo a riconoscerla? Letizia Battaglia è stata l’occhio che ha raccontato al mondo, forse più di chiunque altro, rendendolo archetipo, il concetto complicatissimo di mafia. Attraverso immagini: bambini che giocano con armi, corpi dilaniati dalla lupara, volti sfigurati dalle urla, silenziosi drappi neri. La sua arte, mostrare senza fare scempio, descrivere senza creare distanza. Erano gli anni ’80 e la mafia non esisteva, anzi, per esprimere meglio il concetto: non doveva esistere. Oggi chiudiamo un cerchio durato quasi quarant’anni e costato la vita a centinaia di persone. Oggi, come agli albori della lotta alla mafia, la mafia è tornata a non esistere.

Chi ne parla è visionario, la vede ovunque, si arricchisce parlandone, scrivendone, raccontandola. Chi ne parla diffama, rovina nel mondo l’immagine dell’Italia. Della mafia non bisogna parlare e non solo per volontà della mafia, ma per preservare carriere politiche. Quando sentiamo dire che chi parla di mafie diffama, in realtà il sottotesto è: chi parla di mafie mette in pericolo la credibilità politica di chi amministra territori a rischio; chi parla di mafie, ed è ascoltato oltre i confini dell’Italia, mina la credibilità di governi deboli, che non considerano la lotta alle mafie una priorità.

Dov’è oggi la mafia? E’ la domanda che Letizia Battaglia, dopo averla raccontata per anni, ha fatto ad Attilio Bolzoni per il suo Blog “Mafie” su Repubblica.it. A me questa domanda la fanno spessissimo i giornalisti stranieri quando vengono in Italia, quando vanno a Palermo, a Reggio Calabria, a Bari o a Napoli e non riescono a riprendere o a essere testimoni di aggressioni o sparatorie. Quando non riescono a vedere da vicino come funziona il racket, quando non si accorgono della violenza che modella interi quartieri e che non si può sovrapporre a quella mostrata da un film o da una serie televisiva che condensa tutto, che sceglie una prospettiva.

Chi non vede le mafie oggi, forse, non le sta cercando o non le sta cercando nel modo giusto. Prima mafia era sinonimo di povertà e degrado, oggi in parte è ancora così nei suoi luoghi d’elezione, ma altrove la mafia è imprenditoria, è appalti, è speculazione economica, è infiltrazione di aziende, è scalata a colossi bancari. Oggi è difficile vedere la mafia perché è simile a tutto il resto. Generazioni che hanno visto la mafia, da fenomeno sconosciuto al mondo, diventare centrale, conosciuto, affrontato, raccontato, persino cercato come fonte inesauribile di racconto, oggi devono mutare il proprio sguardo e capire che cercare la mafia dove si spara vuol dire osservare solo un segmento, vuol dire magari provare a raccontarlo e a fermarlo senza individuare la vena che lo alimenta.

Oggi la mafia non è invisibile, è solo che non viene più cercata. E non viene più cercata anche perché ci siamo convinti di averla trovata, vista, conosciuta. E quindi finiamo per fare come i giornalisti stranieri, che alzano le braccia e dopo una settimana a Napoli, se non hanno ripreso una sparatoria, pensano di non aver portato a casa il lavoro. Di dover abbandonare l’argomento e, in ultima istanza, si convincono che in fondo la mafia non esiste davvero, che ormai è solo un’invenzione letteraria, qualcosa che nel passato c’era ma che la modernità ha debellato. Senza lupara diventa complicato raccontare. Eppure la lupara c’è e ci sono i morti a terra, e c’è sangue, innocente o colpevole, che lorda e non chiede più vendetta. Se muori per sbaglio, arrivano promesse di telecamere, di maggiore controllo e poi la realtà è che interi quartieri a Napoli per le forze dell’ordine sono off limits. Se muori da pregiudicato, sei nato e cresciuto in un territorio che spesso non dà scelta, non in determinate condizioni, “uno in meno”, questo si ripete per non affrontare il fallimento.

E allora si segue la regola cinica che molti hanno scelto di darsi, di mafia si può parlare, ma solo in tre casi: quando ci sono morti eccellenti (Falcone diceva, provocando, che ci vogliono due morti eccellenti l’anno per combattere la mafia); quando ci sono molti, moltissimi morti (nell’ordine di due, tre al giorno, uno a settimana non basta); oppure quando l’argomento mafia viene utilizzato per raccontare il potere, quando l’opinione pubblica mette immediatamente in connessione la criminalità organizzata e il governo in carica.
E non si creda che sia più facile raccontare laddove si spara: non è stato così per anni, per decenni. Pur essendoci stati morti e processi, pur essendoci stati martiri, comunque non si arrivava oltre la pagina locale, l’informazione era considerata marginale dall’opinione pubblica nazionale e internazionale.

Questo vale per il Messico, per l’Italia, per l’Albania e vale ancora di più per Paesi come l’Inghilterra, la Spagna, la Francia, che hanno sul loro territorio organizzazioni criminali assai complesse che tuttavia, anche quando ci sono morti, non riescono a essere raccontate, per impreparazione culturale e per i limiti di certo giornalismo. I morti in Inghilterra vengono ascritti a un problema minore; i morti in Francia mai collegati alla mafia. Si usano parole che abbiano un impatto diverso, che creino meno preoccupazione, meno allarme: e allora a sparare sono gang e non organizzazioni criminali strutturate, dedite al narcotraffico e che tengono sotto il loro giogo interi quartieri.
In tutto questo l’Italia è vittima di un cortocircuito: invece di essere fiera di poter vantare la più forte antimafia del pianeta, capace di raccontare le mafie in tutto il mondo, si è vergognata e ha associato la parola mafia a una sintassi di delegittimazione.

Ci siamo vergognati e ci nascondiamo dietro la giustificazione: non siamo solo mafia. E invece proprio non raccontandola si diventa un territorio fatto di corruzione nel quale non c’è spazio per alcuna distanza da questi mondi. E il cerchio si chiude: la Democrazia Cristiana per anni ha utilizzato un’espressione terrificante, omertosa, per fermare qualsiasi tipo di narrazione sulle mafie: stai parlando male dell’Italia. Oggi è esattamente quello che si sente dire chiunque parli di mafie a Napoli, a Palermo, a Bari, a Milano, a Reggio Calabria, a Modena, a Torino:  stai parlando male e ti arricchisci con le mafie. Un mantra democristiano usato oggi da chiunque abbia interesse personale nel bloccare un racconto. Come se parlare di cancro, come se dare informazioni su come affrontare la malattia, facesse ammalare. Come se a chi analizza i nostri mari e trova le coste piene di fecalomi e cadmio (merda e veleno) si dicesse: stai insultando il nostro mare che è stato solcato dai Greci e che è la meraviglia della nostra terra.

E attenzione a ritenere questo atteggiamento superficialità o orgoglio nazionale, non è né l’una, né l’altro, ma calcolo e omertà. Non stupiamoci, la parola mafia, per molto tempo impronunciabile, è tornata a esserlo. Parola per la quale ci si è battuti per farla esistere e che ora si è consumata, consumata dall’abuso non dall’uso: dove tutto è mafia, niente è mafia.
Allora per capire dove sono le mafie oggi bisogna aguzzare la vista e strizzare gli occhi. I morti a terra ci sono ancora, ma non sono della quantità giusta e nei luoghi giusti per farli diventare morti d’interesse. Quindi, a ben vedere, non è solo la mafia ad essersi camuffata, a essersi capitalistizzata; non è solo la mafia ad essersi imborghesita: è il capitalismo che si è mafiosizzato; è la borghesia che si è mafiosizzata.  Il comportamento che prima era evidentemente espressione di un DNA criminale oggi è espressione dell’economia tutta. E allora dov’è la mafia? Londra è la città del pianeta in cui si ricicla più denaro. Dov’è la mafia?

Il Presidente Trump non avrebbe potuto avere vantaggio nell’edilizia senza la famiglia Genovese e la famiglia Gambino. Ma tutto questo ormai non conta più, perché per la comunicazione la criminalità organizzata, in ogni sua forma, è meno spaventosa delle teste mozzate e dei teatri in cui si sparge sangue. Salvo poi ignorare che quello che spacciano per radicalismo islamico non è altro che l’ennesima declinazione di organizzazioni criminali tradizionali, dedite alla produzione di sostanze stupefacenti, al narcotraffico, al contrabbando, all’estorsione. La differenza: Isis ha studiato, lavorato e scelto come presentarsi al mondo e, soprattutto, come farsi raccontare.

*tratto dal blog MAFIE del quotidiano La Repubblica,  da un’idea di Attilio Bolzoni

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