di Marco Follini
E’ un dettaglio, solo un dettaglio. Ma come ammoniva Wittgenstein è proprio nei dettagli che si nasconde il diavolo. Nel nostro caso il diabolico dettaglio è quel continuo parlare sopra le righe, inveire, minacciare, ringhiare l’uno contro l’altro, colpire dall’alto verso il basso, che sembra diventata ormai la stridente colonna sonora di un discorso pubblico che, dall’America in poi, ha perso ogni traccia di armonia e ogni gusto per la complessità.
L’ultimo Trump e l’ultimo Musk si sono lasciati andare in questi giorni a un florilegio di insulti verso critici e avversari senza nessun riguardo né alle forme della diplomazia né alla sostanza dell’umanità. Per loro la difficoltà altrui suona come una conferma delle ragioni proprie. E se poi quella difficoltà diventa sofferenza, tanto meglio. È il segno che la forza ha trovato sul suo cammino ragioni ancora più cospicue e meno discutibili di quelle che solitamente la democrazia riconosce a chi ha dalla sua il (momentaneo) maggior consenso.

In questo caso però il consenso non discende dalla capacità di convincere. Semmai dall’attitudine a forzare maramaldeggiando. È l’altrui debolezza che viene chiamata a esaltare la propria prepotenza. Non c’è traccia di quegli antichi duelli dialettici in cui le argomentazioni altrui potevano suscitare un moto di simpatia e offrire il destro per una replica brillante. Esiste solo una brutalità corrucciata, che non si distende mai in un sorriso, tantomeno in una ironia. I loro discorsi hanno bisogno di infierire sulle vittime, scelte con cura tra i più fragili. I loro combattimenti hanno bisogno che non vi sia incertezza sul loro esito. Le loro ragioni hanno bisogno di non essere mai messe alla prova. Il rischio non fa mai parte della loro agenda. È la facilità, semmai, che vanno cercando.
Vorrebbe essere rassicurante, questa postura così muscolare. E invece svela l’incapacità di fare i conti con la complessità della vita e della politica. A un tratto i discorsi – chiamiamoli così, per carità di patria – si fanno cupi, taglienti, insultanti, abrasivi. Vogliono colpire, non convincere. E nel loro risuonare così ultimativi finiscono però per svelare una sorta di debolezza interiore. Come se una dialettica più argomentata, una sfida più aperta potessero diventare una trappola nella quale il potente di turno smarrisce la propria forza e quel che resta delle proprie ragioni.
Sia chiaro, nessuno invoca il galateo di monsignor Dalla Casa. E tutti noi, che abbiamo coltivato la nostra passione politica, l’abbiamo nutrita di molte asprezze e molta faziosità. Il sentimento irenico di una politica fatta solo di reciproche e rispettose gentilezze abita sulla nuvoletta di una retorica che nessuno dei grandi del passato ha mai frequentato troppo a lungo. Se vogliamo, c’è perfino qualcosa di stucchevole nel richiamo che continuiamo a evocare nel nome di una galanteria che forse non è mai stata tale. O almeno, mai fino in fondo.
E tuttavia c’è modo e modo, e c’è misura e misura. Quello che trapela dal linguaggio scarno e brutale che va per la maggiore nel far west della nostra democrazia (o di quel che ne resta) è un sentimento di desolazione. Non tanto perché ci si manchi di rispetto. Ma perché quel continuo alzare la voce, parlando per insulti e per sentenze, rivela una pochezza di visione e di coraggio che a sua volta fa paura. La minaccia, distribuita qua e là, e presto destinata anche ai corifei di casa nostra, indigna e rivela una crisi di civiltà. Ma quel suo ripetersi continuamente, adattandosi a ogni circostanza e fidando ciecamente nella sua capacità di intimidazione finisce poi per rivelare una pochezza umana e politica che spaventa quasi più per la sua fondamentale fragilità che per la sua prepotenza.
Alla guida del mondo si sta instaurando una dinastia che pretende di farci paura. E non sa che a spaventarci ancora di più è quella loro attitudine a farsi forti solo laddove la loro forza non sembra correre nessun rischio e non accettare nessuna sfida. La mancanza di umana gentilezza ne è solo la triste rivelazione.