di Marco Follini
Si è spenta in pochi giorni l’eco dello show televisivo di Beppe Grillo da Fazio. Destino di quasi tutte le esternazioni che abbiano a che vedere con la politica, si dirà. Un gran rumore lì per lì, poi un silenzio che annuncia l’oblio. Eppure sarebbe stato il caso di non archiviare l’argomento con troppa fretta. Dato che in fondo si stava parlando dell’ultimo decennio (almeno) della nostra vita pubblica.
Certo, lo spettacolo non era dei migliori. Il solito repertorio di gag, battute, monologhi a cui il comico ci ha abituato da molti anni a questa parte. Recitato peraltro con una sorta di stanchezza esistenziale che le parole apparentemente scandalose non riuscivano a nascondere. Una performance premiata dai numeri, si dirà. Eppure priva della verve dei giorni migliori.
Ma la questione non è lo spettacolo. E’ la politica. E cioè il fatto che l’altra sera a parlare -e qualche volta a straparlare- era un signore che ha fondato un movimento politico che cinque anni fa aveva raccolto il consenso di un terzo degli elettori, che ha governato tutta la scorsa legislatura, che si è intestato una piccola riforma istituzionale (la riduzione del numero dei parlamentari) e che ha richiamato l’attenzione di mezzo mondo come tipico campione del populismo contemporaneo. Dunque era lecito aspettarsi uno straccio di riflessione politica intorno a tutto questo.
E qui però è cascato l’asino (o è atterrato il grillo, se si preferisce). Poiché il fondatore di cotanto esperimento non se l’è sentita di difendere lai sua creatura, visti i risultati non proprio esaltanti. E non si è sentito neppure però di fare una doverosa rivisitazione critica di tutti questi passaggi che hanno condotto dalla speranza alla delusione. Ha ammesso, questo sì, di non essere riuscito nel suo intento. Ma lo ha fatto, se così si può dire, con disinvolta leggerezza.
Come uno showman che debba ammettere l’indomani che l’esibizione della sera prima non è stata delle migliori. Né dalle sue parti, tra i seguaci di allora e di oggi, s’è voluta cogliere l’occasione per spostare la riflessione anche solo un metro più avanti. Non che dovessero cospargersi il capo di cenere. Ma almeno riflettere su cosa è andato storto. Magari con la velleità di riuscire a raddrizzarlo, un giorno o l’altro. Cosa che avviene di norma in tutti i partiti del mondo. O almeno tra tutti quelli che combattono nel recinto delle democrazie.
Si dirà che forse è un po’ ingenuo aspettarsi da un movimento senza radici (e senza troppi pensieri) una di quelle discussioni pensose e sofferte che in altri tempi facevano la gioia di dirigenti, militanti e osservatori dei partiti d’antan. E’ vero. Ma stupisce ugualmente la refrattarietà di tutto quel mondo, che pure ha avuto in mano per qualche tempo i destini del nostro paese, ad aprirsi a un confronto. Con se stessi, se non con gli altri. E cioè a fare i conti, se non con i risultati di oggi, almeno con le aspettative di ieri. Nella speranza, un po’ vana, che di tutto questo sia rimasto qualcosa.
E invece quello che si evince da tutti questi silenzi e queste ritrosie è che la parte politica che si annunciava come la più autentica e genuina si rivela piuttosto come la più indifferente e spregiudicata. Non una parola di autocritica, non una giustificazione offerta in cambio di tutte le delusioni, non un’ammissione quantomeno di difficoltà. Neppure l’annuncio di una svolta. Nulla. Dal fondatore al successore fino all’ultimo dei dirigenti.
C’è in tutto questo una forma di cinismo. Emblema di un mondo che non sembra aver creduto più di tanto alle sue parole d’ordine e alla rivoluzione dei suoi costumi. Un mondo a cui non si chiede di indossare il saio del penitente.
Ma almeno di fare quello che s’è sempre fatto nei partiti di tutti i tempi. E cioè di riflettere sui propri errori quantomeno per cercare di non commetterne altri. Lo avrebbe fatto l’ultimo maneggione della prima repubblica. Che non lo facciano gli intrepidi protagonisti della terza dà da pensare.