di Tonio Attino
Siamo arrivati fin qui saltando da un’illusione all’altra e ora molti di noi pensano a un futuro sempre uguale al passato. La grande fabbrica seguiterà a garantirci il futuro, a darci lavoro, soldi, stipendi, sicurezza e perciò bisogna impegnarsi a salvarla, considerarla la prospettiva della nostra economia, teorizzare una compatibilità non raggiunta in mezzo secolo e altrove considerata irraggiungibile. Cominciassimo a guardare un po’ oltre le nostre scarpe capiremmo quanto tutto questo sia improbabile. Possiamo immaginare, dopo cinquantadue anni, di viverne così altri cinquantadue?
La vita è un ciclo, tutto finisce, anche le fabbriche. Dovremmo prepararci al Big One, alla terribile scossa, immaginare che arriverà per un motivo o l’altro. Quando, non sappiamo; perché, neppure. Ma tenerci pronti. A Bagnoli, la scossa è arrivata vent’anni fa e tutto è cambiato. Adagiato come lo scheletro di un dinosauro sullo stupendo litorale di Coroglio, il centro siderurgico è ormai un monumento alla storia industriale e da vent’anni sta lì silenzioso, immobile.
A Bagnoli le ciminiere incrociavano i palazzi in un rapporto carnale, il metallo infuocato illuminava il cielo, poi un giorno arrivò il Big One, e finì tutto. Da vent’anni l’Italsider, la fabbrica che ha sfamato generazioni di napoletani, non c’è più. Dal 1992 Bagnoli non produce acciaio.
Costruito nel 1905, lo stabilimento siderurgico, esteso pressappoco su 180 ettari – era grande più o meno un decimo di quello di Taranto – cominciò a marciare nel 1910 raggiungendo una produzione massima di due milioni di tonnellate, un quinto della produzione tarantina. L’Italsider ebbe il picco di personale con 8026 addetti nel 1976, ma il numero di operai precipitò a poco più di quota 3000 finché la congiuntura internazionale e le decisioni della Ceca, la commissione europea per il carbone e l’acciaio, portarono al declino irreversibile. I tagli salvarono l’Italsider di Taranto, ma condannarono Bagnoli.
La decisione della fine fu sostanzialmente anticipata il 3 novembre del 1981 dal ministro delle partecipazioni statali, il socialista Gianni De Michelis. Arrivato a Bagnoli per incontrare gli operai e annunciare che gli altiforni chiudevano, De Michelis volle rassicurare sul fatto che l’Italsider continuava a vivere con le lavorazioni a freddo. Fu garantita la costruzione di un impianto di laminazione, sicché l’Italia finanziò l’installazione di un nuovo treno nastri. Gli operai celebrarono le parole di De Michelis inondandole di fischi.
Per due anni e mezzo l’Italsider venne riammodernato con una spesa di 1200 miliardi di lire. Nell’89 si fermò l’area a caldo, rimase in funzione un laminatoio. Lo Stato italiano chiuse definitivamente lo stabilimento nel 1992, gli impianti vennero ceduti a gruppi industriali cinesi e indiani, fu smantellato e venduto per 23 miliardi di lire anche il treno nastri promesso da De Michelis, costruito nel 1985 e costato 800 miliardi. Se può servire a farsi un’idea su come vanno le cose del mondo, dieci anni dopo, nel 1995, l’industriale Emilio Riva avrebbe acquistato per 1.649 miliardi di lire, l’intero centro siderurgico di Taranto: cinque altiforni, due tubifici, due accaierie e anche due treni nastri.
Quella storia è finita, archiviata, conclusa; e il ciclo vitale s’è chiuso pure a Sesto San Giovanni, la città-fabbrica lombarda incollata a Milano. Sesto ha 81mila abitanti e ne aveva diecimila in più grazie all’espansione industriale sviluppatasi intorno a un nucleo di industrie solide: Breda, Magneti Marelli, Ercole Marelli, Pirelli e soprattutto la società siderurgica Falck. «Negli anni ‘30 Sesto San Giovanni contava più operai che abitanti” ricorda Antonio Pizzinato, friulano, ex operaio e parlamentare, sottosegretario al lavoro dal 1996 al 1998 nel primo governo Prodi.
Negli anni d’oro dell’industria Sesto San Giovanni crebbe fino a 92mila abitanti, concentrando nei quasi 12 chilometri quadrati di territorio una densità tecnologica che – dall’aeronautica alle locomotive, dalla meccanica all’acciaio – ne fece uno dei motori industriali della Lombardia. La prima colata delle “Acciaierie e ferriere lombarde Falck” data 1906, l’ultima è del 1996. Battesimo e morte in novanta anni esatti, otto in più di Bagnoli; e come per Bagnoli, gli stabilimenti Falck furono dismessi per la negativa congiuntura internazionale e gli accordi con la Ceca.
… Bagnoli e Sesto hanno chiuso le loro industrie e aperto la riqualificazione urbanistica, Genova non ha più l’area a caldo, incompatibile con l’abitato del quartiere di Cornigliano dove studi scientifici rilevarono l’aumento della mortalità del 23 per cento tra gli uomini e del 53 per cento tra le donne. Taranto resta il centro siderurgico a ciclo integrale più grande del continente. L’acciaieria d’Italia ha importato le produzioni espulse da Cornigliano, dove nel 2001 la magistratura mise sotto sequestro l’area a caldo (la cokeria fu chiusa l’anno dopo, l’altoforno nel 2005) e dove già agli inizi degli anni Novanta si discuteva dell’impossibilità di tenerla accanto alle case. Ugo Signorini, un ex assessore democristiano candidato nel 1993 a sindaco di Genova, si domandava come potesse reggere la siderurgia, ospitata su 160 ettari, dentro il quartiere di Cornigliano e “con una media di 20 occupati per ettaro, un vero spreco, visto che il rapporto posti/spazio nell’industria è di 200 persone per ettaro”.
Gli impianti di Genova Cornigliano, di proprietà della famiglia Riva, sono stati riconvertiti e lavorano adesso i prodotti provenienti da Taranto, la città in cui resta concentrata la maggiore produzione italiana di acciaio e dove il rapporto tra ettari e lavoratori non è neppure pari a nove. Nove lavoratori per ciascun ettaro di fabbrica.
Pittsburgh, la vecchia, fumosa, inquinatissima Steel City è diventata intanto, secondo l’Economist, la città più vivibile d’America e Paul C. Wood, vicepresidente dell’Upmc (University of Pittsburgh Medical Center), nel 2009 ha spiegato così perché e come è avvenuta la grande mutazione: “Qui non si insegue la palla, ma cerchi di piazzarti dove pensi che la palla arriverà. Non si vive alla giornata, puntando sulla bolla del momento, ma si investe pensando alla prossima generazione e senza chiedere aiuti pubblici. Insomma la mentalità è ancora quella operaia, anche se non ci sono quasi più operai”.
LA PROFEZIA DI NAKAMURA SUL CENTRO SIDERURGICO DI TARANTO: “UN IMPIANTO A CICLO INTEGRALE PUÒ RIMANERE IN ESERCIZIO ANCHE PER CINQUANT’ANNI…
Quando arriverà il Big One non capiremo perché. Non siamo preparati, non immaginiamo che una fabbrica possa chiudere o il suo proprietario possa decidere di cambiare le sue strategie o il mercato suggerirne di nuove. Lo Stato chiuse Bagnoli e un privato non potrebbe chiudere Taranto? Anche i teorici del libero mercato e della libertà di impresa non vengono sfiorati dal dubbio, o forse la potenza del sistema Ilva con la sua batteria di comunicatori e la sua rete di addetti alle relazioni esterne hanno soggiogato il pensiero di chiunque, e fatto dimenticare, se qualcuno le avesse ascoltate, le parole di un esperto, il manager giapponese Nakamura: “Un impianto a ciclo integrale, con buona manutenzione, può rimanere in esercizio anche per cinquant’anni di seguito. Quello di Taranto è il più recente di tutto il continente e potrà funzionare ancora per venti o trent’anni“. Lo stabilimento siderurgico di Taranto ha cinquantadue anni. Nakamura scrisse quelle parole nel 1993, diciannove anni fa.
Noi non prendiamo in esame l’eventualità del dopo, non vediamo il crepuscolo di una storia, l’Ilva è infinita, immortale. Perciò davanti al Big One saremo disarmati.
Tonio Attino, Generazione Ilva (Besa), 2012