di Massimo Mucchetti
Il COP 21 apre spazi fino a ieri insperati alle politiche industriali della Commissione Ue e dei governi nazionali. La stessa disciplina degli aiuti di Stato andrà reinterpretata per perseguire la decarbonizzazione dell’economia. Approfittiamone. Attraverso il rilancio in forme nuove dell’ILVA, l’Italia può uscire dall’angolo, nel quale la vorrebbero cacciare i concorrenti europei, e assumere un ruolo di guida nella Ue.
Con il decreto da approvare a gennaio, il governo darà tempo fino al 30 giugno 2016 all’amministrazione straordinaria per espletare le procedure di vendita dell’ ILVA e metterà a disposizione le risorse finanziarie per reggere nei prossimi mesi. L’amministrazione straordinaria ha già liberato l’azienda dalle vecchie legacy. Ora il governo riallineerà gli investimenti ambientali al piano industriale capovolgendo la logica precedente, che asserviva il piano industriale al piano ambientale, peraltro troppo costoso se applicato alle vecchie tecnologie. E tuttavia mettere a gara l’ILVA sic et simpliciter non basta.
Cedere alla tentazione, via il dente, via il dolore, se mai procurerà un padrone agli stabilimenti, difficilmente potrà garantire ai creditori un recupero decente, ancorché parziale, delle proprie spettanze né potrà assicurare ai dipendenti, alle imprese dell’indotto e all’industria meccanica il rilancio del maggior gruppo siderurgico nazionale.
La siderurgia mondiale fronteggia due grandi emergenze: l’eccesso di capacità produttiva e l’impatto ambientale di altoforni e cockerie. Sperare che un concorrente come Arcelor Mittal rilevi Taranto per rilanciarla rischia di essere illusorio. Più verosimilmente chiuderebbe l’area a caldo, sfrutterebbe i laminatoi fino a quando fosse conveniente e conserverebbe il sito di Genova, vicino alla sua acciaieria di Fos, Francia del Sud, pronta a girare l’impianto di Novi Ligure a chi l’aiutasse nell’impresa.
E’ questo che vogliamo? Si è parlato anche di alcuni fondi di private equity. Ma la natura di questi investitori consiglia di farvi ricorso solo in mancanza di altre soluzioni. La verità è che non ha molto senso parlare di azionisti a prescindere dai piani industriali. L’ILVA non è un gioiello da battere all’asta, ma rappresenta un’opportunità solo se chi se la intesta sa rispondere alle due grandi emergenze della siderurgia.
Fino a oggi l’ILVA ha seguito un piano industriale che, attuando le prescrizioni dell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale), regge solo se marciano a pieno regime i 4 altoforni e le 10 cockerie. Ma un tal piano ha senso se la domanda di coils fosse stabile e abbondante. Così non sarà per un periodo imprecisabile. E dunque la rigidità del processo produttivo tradizionale finisce con l’imporre costi fissi insostenibili. L’11 agosto 2015, in un intervento sul “Sole 24 Ore”, avevo dato l’allarme. Il bilancio 2015 dell’ILVA purtroppo lo conferma. Ora il nuovo decreto del governo ci mette una pezza provvisoria, ma non si possono buttare denari all’infinito nella fornace di Taranto.
Bisogna voltare pagina: acquisire flessibilità produttiva per navigare nella congiuntura, non sprecare denari in investimenti inutili, migliorare l’impatto ambientale. Un’equazione a tripla incognita che si può risolvere solo con un nuovo piano industriale, quello al quale si è lavorato negli ultimi tre mesi, sotto l’egida dei commissari. Un progetto che recupera, aggiornandole, le intuizioni del precedente commissario, Enrico Bondi.
Taranto dovrebbe diventare un’acciaieria ibrida con i tre altoforni piccoli in marcia per tutta la durata dei cospicui investimenti già effettuati. Invece, il gigantesco altoforno 5, fermo perché da rifare avendo esaurito i vecchi investimenti, va gradualmente sostituito con due forni elettrici ai quali agganciare due colate continue ad alta velocità, così da rendere più snello e finalmente flessibile il processo produttivo. L’attività fusoria verrebbe alimentata in buona misura, dal 20 al 40%, da minerale di ferro preridotto con il gas. Le cockerie verrebbero quindi dimezzate. Le emissioni nocive idem. Le prescrizioni dell’Aia andrebbero pertanto adattate alla nuova impostazione. Che comporterebbe a regime il risparmio di almeno 400 milioni di investimenti (2,5 a 2,1 miliardi).
Un’innovazione così radicale regge se la fornitura del gas è certa nel tempo e non esosa nel prezzo. Prima della rivoluzione dello shale gas, che ha ribassato i prezzi spot, non sarebbe stata nemmeno ipotizzabile. Ma in questa fase nuova è ragionevole pensare che l’Eni possa convergere su un tale progetto cogliendo l’opportunità di avere un grande cliente che alleggerisca il peso dei contratti take or pay.
Questo piano potrà riportare la pace tra l’azienda e la città, anche se verrà avversato da chi vuole la chiusura dell’acciaieria perché punta sul business, assistito e arretrato, della mera bonifica. Ma per realizzarlo servono capitali adeguati. La Bei può offrire mutui ventennali importanti, diciamo 2 miliardi, a condizioni poco onerose. Ma ci vuole anche capitale di rischio: almeno 500 milioni per partire, 8-900 per sostenere l’intero progetto è avere il circolante dalle banche. Capitale di rischio apportato da “mani adatte”.
Personalmente, non avrei nulla in contrario se lo Stato scendesse in campo per rivendere poi. Sarebbe la soluzione più semplice, sotto le bandiere del COP 21. Ma al momento si lavora attorno a una soluzione a netta maggioranza privata, più complicata e ambiziosa. La Cassa depositi e prestiti può mettere nella nuova società che affitterà l’azienda 150-200 milioni. Le banche creditrici, Intesa San Paolo e Unicredit, già fortemente esposte (come la Cassa del resto), potrebbero portarne altri 50-70. Sarebbe assai significativo l’ingresso, anche su base ridotta, dei grandi fornitori delle tecnologie, anche a garanzia del loro impegno. Ma la chiave di volta sarebbe l’ingresso della siderurgia privata del Nord sulla base di una precisa convenienza industriale, non certo di appelli nazionalistici.