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22 Dicembre 2024 07:20

ILVA, una strage di Stato di lunga durata, rea confessa a norma di legge

di Roberto Nistri

     Il sociologo Franco Cassano ha sigillato l’ultima pagina del 2012 con un titolo impegnativo: L’Ilva chiude un’epoca, così la Puglia diventa il crocevia del futuro. Ancora una volta, Taranto città importante, come tante altre volte è stata considerata: prima grande città industriale nel Sud già alla fine dell’Ottocento, protagonista nella navalmeccanica fra la prima e la seconda guerra mondiale, città proletaria e antifascista, con l’orgoglio di arsenalotti, cantierini e siderurgici; tante piume identitarie strappate una ad una da una Storia vendicativa, che ha consegnato ai media e all’immaginario europeo la superstite e triste icona di “città criminale”. Ricorrente è stato il ritornello di una Taranto “osservatorio privilegiato”. Nel 2007 lo scrittore Christian Raimo considerava di grande interesse la città ebalica (con le parabole di Cito e dell’ ILVA, il suo buco di bilancio comunale mostruoso, i suoi record di diossina, il suo mare guasto) “perché dell’Italia è forse l’osservatorio privilegiato, il paradigma sociale e antropologico utile a capire anche ciò che accade nel resto della penisola”.

     Tutto giusto, ma comprensibilmente l’homo jonicus farebbe volentieri a meno di siffatti riconoscimenti: ormai tutti sanno che nei paraggi degli “osservatori privilegiati” si mena vita assai grama, e qualche volta si muore. Lo sanno anche i grandi protagonisti della politica che, durante la campagna elettorale del 2013, hanno schivato con cura la palla avvelenata della città che chiude un’epoca: sembra che, come in un vecchio film di fantascienza, non la “collina delle polveri venefiche”, ma la città stessa sia stata coperchiata e impermeabilizzata. La storia, come nella canzone di Guccini, ci ha raccontato come finì la corsa. La siderurgica locomotiva del progresso si è infilata in un buco nero, trascinando con sé apologeti e trombettieri del re, sindacalisti e giornalisti collusi, faccendieri e amministratori su libro paga e una moltitudine di poveri cristi: doppiamente colpevoli – direbbe Brecht – perché vittime e perché innocenti.

     Anche Pasolini, grande innamorato della città dei due mari, avrebbe detto la sua sui “malvagi dormienti” che seguono la corrente, sulla colpevolezza dell’innocenza, sulla volontà di non sapere. “Meno si sa, meglio si sta”. Ma già nel 1985 il giornalista Sandro Viola parlava di una “città vinta”. Dopo gli ultimi bagliori di cittadinanza attiva negli anni ’70, la Taranto “capitale dell’acciaio”, incredula di fronte al declino dell’Italsider, perdeva la vigilanza sugli effetti perversi della crisi, smarriva gli indici valoriali di una cultura del lavoro che avrebbe dovuto ormai misurarsi col turbocapitalismo della globalizzazione in atto.

     Una comunità da sempre in appalto, ben assuefatta alla “servitù volontaria” , rispetto alla grande monocultura -“ Zitto e mangia” – si trovava ormai sguarnita di fronte a un crescente deficit di democrazia e al dilagare di una economia criminale emergente dalla giungla degli appalti selvaggi. Nella guerra per bande, si coniugavano buone entrature negli ambulacri del potere politico-economico e un feroce controllo del territorio, che doveva lasciare una scia di 160 morti ammazzati. Era l’ora siderale dei cavalieri di sventura e degli stregoni: da Cito, il mazziere nero tangentista e carcerato, “trombone in fiera e Gran Tamburone del Nulla” (Gadda) , alla sindachessa berlusconiana che amministrava il saccheggio del Municipio. Pensiamo ad una poesia del cittadino onorario di Taranto, Giuseppe Ungaretti: Allegria di naufragi.

     A trovarsi a proprio agio era patròn Riva, che nel 1995 aveva acquistato a prezzi stracciati l’acciaieria ribattezzata ILVA. Ormai per la città ebalica si stava perfezionando l’ultima icona identitaria: la città più indebitata d’Italia e la più inquinata d’Europa. “E’ arrivato il dissesto e non abbiamo nulla da metterci”.

     L’ Italsider era nata senza regole, fra licenze in bianco e licenze in precario. Per il nuovo padrone della ferriera valeva una sola regola: nessuna regola. Spremere il profitto ed esternalizzare il veleno sulla città ridotta a contenitore di rifiuti: un cronico mix di cadmio, berillio, arsenico, mercurio, nichel, diossina, benzo(a)pirene e via cantando: “da’ padroni di molta buona limosina e chiodi novi da crucifigger la Città” (Gadda). Chi era disubbidiente finiva nella camera della tortura, la famigerata Palazzina Laf, per la quale Riva veniva condannato per mobbing a due anni e otto mesi: una grande vittoria giudiziaria, ma una non bella figura sindacale per la mancata mobilitazione operaia sul fronte della dignità del lavoro. Il gioco di Riva era quello di “confinare i lavoratori più rispettati per dimostrare che la proprietà era nelle condizioni di liberarsi di chiunque” , come ha scritto uno degli “indesiderabili”, Claudio Virtù.

    I sindacalisti tarantini avevano dimenticato il classico motto degli IWW statunitensi: “ An injury to one is an injury to all”. Un torto fatto a uno di noi è un torto per tutti. I comandamenti della dignità costituiscono l’essenza dell’individuo e del suo lavoro. Dignità è non piegare strumentalmente l’altro ai propri obiettivi. La dignità non è monetizzabile, non ha prezzo, non è negoziabile. E’ self respect, onore verso se stessi.

     La storia ha fatto il suo corso. Riva ha tirato troppo la corda ed è finito agli arresti, con gli impianti sotto sequestro. When the shit hit the fan, dicono gli inglesi: quando gli escrementi finiscono nel ventilatore… Per i tarantini continua l’eterna corsa del criceto, in una sorta di “presente remoto”. La proposta di Riva è sempre stata chiara: “inquino o chiudo”. Il tesoretto è stato messo al riparo in terre lontane mentre a Taranto la polluzione continua. Ai tempi della vecchia Italsider si usava la metafora della grande mammella da cui succhiare un perpetuo benessere, oggi risuona il tormentone: “Non si può costringere i lavoratori a scegliere se morire di fame o di inquinamento” (l’esito più probabile è quello di morire affamati e avvelenati).

     Nel 1967 Egisto Corradi proponeva l’immagine di una gigantesca meteorite piombata nella piana degli ulivi. Oggi risulta più attuale l’astronave di Alien: la metafora della grande mammella da cui suggere prosperità ha ceduto il passo ad un biomeccanico parassita che cresce nel corpo della vittima fino a che gli esplode dal petto. Il cancro si è attaccato alle budella, alle viscere della città, ad un corpo vivente che lo ospiti, che gli faccia da madre. Per il finale potremmo rievocare la scena di un cucciolo di Alien che esce dalla pancia di John Hurt: rutta, sputa e se ne va. Questo sembra essere per Riva il ciclo della family: abbandonare l’equipaggio dissanguato, non pagare dazio e ripartire con un’altra astronave.

     I tarantini rimangono custodi di un Pil transnazionale dai contorni ineffabili e ostaggi di una politica industriale che lo Stato rivendica in proprio, in nome dei potenti finanziamenti erogati in un cinquantennio, pur versando lacrime di coccodrillo sulla vergognosa trascuratezza della salute dei tarantini rimasti al palo: da una parte uno sgangherato piano “salva Ilva” e dall’altra nessun piano “salva Taranto”, bensì fumosi progetti di bonifica di suoli, sottosuoli, falde acquifere, fondali marini, gallerie sotterranee che, sotto le scuole del quartiere Tamburi, portano all’ ILVA le acque di raffreddamento. Allo stato dell’arte “prescrivere ricette per l’osteria dell’avvenire” (Marx) partorisce solo volatili chimere che sbattono agli angoli dei Ministeri, come smarriti uccelli notturni. Le abbiamo provate tutte e “ci chiediamo/ se quel posto dove andiamo / non ci inghiotta e non torniamo più” (Paolo Conte).

     Diciamola tutta: un crimine industriale ha fatto esplodere una catastrofe ambientale che storicamente si presenta come una catastrofe cronica, risalente addirittura all’era preitalsiderina. In fondo sappiamo l’avvenire a memoria. “Catastrofe” è parola greca che indica un “rivolgimento”, per conseguenza del quale tutto radicalmente muta solo per fare ritorno ad un punto di partenza, in uno spazio immarcescibilmente immutabile, che consente il perpetuo ripetersi dei mutamenti marcescibili. Il futuro prossimo della città jonica è affidato alla Magistratura e alla Corte costituzionale. Vale sempre l’ammonizione di Brecht: “E voi, imparate che occorre vedere e non guardare in aria; occorre agire e non parlare”. Ma tocca pur sempre alla testa la prima mossa. Per il momento a Taranto è ancora in atto una autentica Strage di Stato di lunga durata, paradossalmente rea confessa e a norma di legge. Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare…

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