Maria Mesi già alla fine degli anni ’90, allora poco più che trentenne, sentimentalmente legata al boss Matteo Messina Denaro aveva portato gli investigatori che avevano dato la caccia al latitante erano arrivati a un passo dalla cattura del padrino. Avevano anche individuato l’appartamento di Aspra, frazione marinara di Bagheria, in cui i due amanti si vedevano. Il covo venne messo sotto controllo ma qualcuno avvertì il boss e ancora una volta sfumò l’arresto. Ora torna nell’inchiesta sulla latitanza del capomafia di Castelvetrano.
Questa mattina i carabinieri del Ros hanno perquisito l’abitazione di Maria Mesi e del fratello Francesco, due case in una palazzina di via Milwaukee a poca distanza dall’alcova di un tempo. I carabinieri del ROS hanno passato al setaccio anche la torrefazione Agorà della famiglia Mesi e una casa di campagna. I militari hanno portato via computer e telefoni in quanto sospettano che la donna e il fratello attraverso la sua famiglia mantenessero ancora contatti con il padrino .
I nomi dei due fratelli Mesi sono stati quindi di nuovo iscritti nel registro degli indagati. Come 20 anni fa circa l’accusa è ancora quella di “favoreggiamento”, reato per cui entrambi sono stati condannati in via definitiva. Maria Mesi a 3 anni perché in Cassazione cadde l’aggravante mafiosa, incompatibile, secondo i giudici, con la sua relazione amorosa con il boss. Gli investigatori della Criminalpol, a conferma di quanto già sapevano, anni dopo la condanna, trovarono nel nascondiglio tracce del capomafia: una consolle Nintendo, un foulard di Hermes. La casa venne tenuta sotto controllo per un mese, ma qualcuno avvertì il capomafia ricercato che smise di andarci. “Mery” non scontò tutta la pena, grazie alla buona condotta carceraria. Il fratello Francesco Mesi fu condannato a 4 anni e il Comune di Bagheria gli negò l’apertura della torrefazione, ma il Tar diede ragione al “fiancheggiatore” di Messina Denaro. Una formuletta giuridica passò sopra l’aiuto dato al superlatitante stragista. Aiuto che, stando alle indagini condotte vent’anni dopo dal pool oggi coordinato dal procuratore Maurizio De Lucia, dall’aggiunto Paolo Guido e dal sostituto Pierangelo Padova, sarebbe perdurato fino a oggi.
Gli investigatori scovarono le lettere d’amore che la donna inviava al fidanzato. Dalla corrispondenza trovata in casa di Filippo Guttadauro, cognato di Messina Denaro e collegamento tra il boss latitante e il suo mondo, vennero fuori i pensieri intimi di una coppia per forza di cose clandestina: “Ho voglia di darti tantissimi baci, mi manchi un mondo..”., scriveva la donna, allora poco più che ragazza, al fidanzato. “Avrei voluto conoscerti fin da piccola e crescere con te, sicuramente te ne avrei combinate di tutti i colori perche’ da bambina ero un maschiaccio”, scriveva Maria Mesi. Ed ancora: “Vorrei stare sempre con te, ho pensato molto al motivo per cui non vuoi che viva con te e credo di averlo finalmente capito. Quindi se e’ come penso io ti capisco, ma non sono d’ accordo con te. Ma siccome ti rispetto tantissimo di conseguenza rispetto le tue scelte. Ti amo e ti amero’ per tutta la vita. Tua per sempre Mari. Ps: Scrivimi presto“.
Ma non solo. Mettendo i suoi telefoni sotto controllo gli investigatori erano riusciti a scoprire che riceveva chiamate da cellulari in uso a Messina Denaro. Ascoltata dalla polizia, dichiarò di conoscere il latitante, ma solo per “motivi professionali”. Resta da capire quale professione…
All’epoca Maria si firmava e si faceva chiamare Mari oppure Mariella. “Avrei voluto conoscerti fin da piccola e crescere con te, sicuramente te ne avrei combinate di tutti i colori perché da bambina ero un maschiaccio”, scriveva la donna che per anni ha lavorato alla Sud Pesca, impresa di conservazione del pesce, del fratello di Filippo Guttadauro, Carlo. Francesco Mesi, invece, e la terza sorella Paola, erano alle dipendenze dell’ingegner Michele Aiello, già condannato a 16 anni per mafia.
L’imprenditore Aiello sospettato di aver investito i soldi del boss Bernardo Provenzano nella sua clinica di Bagheria, venne coinvolto nell’inchiesta sulle cosiddette talpe alla Dda, una rete di insospettabili, tra cui anche esponenti delle forze dell’ordine, che dando ai boss informazioni riservate hanno consentito loro, per anni, di evitare le manette. Inchiesta culminata nello stesso processo «Talpe» che sancì la fine dell’esperienza come presidente della Regione Sicilia di Totò Cuffaro, che ebbe una condanna 7 anni per avere fatto scoprire una microspia a casa di Giuseppe Guttadauro, fratello del cognato di Matteo Messina Denaro.
Gli investigatori proseguono dunque con le perquisizioni nelle abitazioni degli antichi favoreggiatori, nel tentativo di ricostruire la lunga latitanza del padrino. In cella sono già finiti Andrea Bonafede, il geometra di Campobello di Mazara che gli ha prestato l’identità, e l’incensurato Giovanni Luppino, che ha accompagnato il boss alla clinica “La Maddalena” nel giorno dell’arresto accusato di “associazione mafiosa“, mentre i fratelli Mesi di “favoreggiamento“.