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22 Novembre 2024 05:20

INTERCETTAZIONI AI GIORNALISTI , SE QUESTA E’ LIBERTA’ DI STAMPA…

Si riaccende il dibattito sul difficile rapporto tra giustizia penale e informazione. La propalazione sugli organi di stampa delle notizie relative a inchieste penali in corso ha, purtroppo, assunto un ruolo decisivo nella ricostruzione dei fatti di cui si occupa la giustizia penale. Umberto Eco ci ha insegnato che le cose dette dalla stampa o dalla televisione, diventano poco a poco vere, verificate, rese vere presso la collettività.

di MARIA LUCIA DI BITONTO*

La scelta del Guardasigilli di inviare gli ispettori a Trapani, dopo l’intercettazione di talune comunicazioni di diversi giornalisti – alcune delle quali fra una giornalista e il suo avvocato – pone nuovamente al centro del dibattito pubblico, da un lato, il divieto di intercettare comunicazioni riservate degli avvocati; dall’altro, il delicato e problematico rapporto fra giustizia penale e informazione.

Quanto al primo profilo, va ricordato che la tutela apprestata dall’ordinamento a salvaguardia della funzione difensiva è assoluta, inequivoca e opera su due livelli. L’art. 103 c.p.p. pone un divieto insuperabile d’intercettazione delle comunicazioni relative a utenze immediatamente riferibili al difensore. Nel differente caso di intercettazione meramente accidentale della comunicazione difensiva – vale a dire nel caso di captazione ex ante ammissibile e non vietata, perché relativa a utenza estranea a quelle appartenenti al difensore – l’eventuale apprensione di conversazione avente a oggetto temi difensivi è comunque insuscettibile di utilizzazione probatoria, in quanto “non possono essere utilizzate le intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni” degli avvocati e degli investigatori privati autorizzati e dei consulenti tecnici quando hanno a oggetto fatti conosciuti per ragione della loro professione, “salvo che le stesse persone abbiano deposto sugli stessi fatti o gli abbiano in altro modo divulgati” (art. 271 comma 2).

Il nodo principale di questa vicenda, però, riguarda i giornalisti ed è stato ineccepibilmente posto in rilievo da Vladimiro Zagrebelsky, che lo sintetizza nel seguente quesito: “chi parlerà più con un giornalista se teme che il cellulare potrebbe essere intercettato, se il computer può essere forzato, se può essere obbligato a rivelare l’identità della fonte?”.

Va osservato, al riguardo, che la tutela del segreto giornalistico è compiutamente codificata solamente in relazione alla riduzione dell’area degli obblighi testimoniali del giornalista (art. 200 comma 3 c.p.p.) e non in materia di intercettazioni. Infatti, l’art. 271 comma 2 c.p.p. stabilisce un divieto di utilizzazione per i colloqui coperti da segreto solo se riferibili ai soggetti richiamati dall’art. 200 comma 1 c.p.p., vale a dire: ai ministri di confessioni religiose; agli avvocati e agli investigatori privati autorizzati; agli esercenti altri uffici o professioni cui leggi speciali riconoscono la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale. Probabilmente, la vicenda in esame potrebbe costituire l’occasione per rimeditare criticamente le regole codificate, al fine di propiziarne la modifica.

Al tempo stesso, però, non si può fare a meno di ricordare che altri e più gravi sono i guasti registrati nella relazione fra organi di stampa e giornalisti, da un lato, e investigazioni penali, dall’altro.

La propalazione sugli organi di stampa delle notizie relative a inchieste penali in corso ha, purtroppo, assunto un ruolo decisivo nella ricostruzione dei fatti di cui si occupa la giustizia penale. Umberto Eco ci ha insegnato che le cose dette dalla stampa o dalla televisione, diventano poco a poco vere, verificate, rese vere presso la collettività.

Ciò risulta ulteriormente amplificato dalla diffusione e pervasività dei social media. Ogniqualvolta le risultanze investigative raccolte dagli organi inquirenti si saldano con la loro massima diffusione su internet, radio, giornali e TV, sul piano sociale gli esiti ‘punitivi’ del procedimento penale si realizzano senza bisogno di aspettare la decisione ufficiale che giungerà, chissà quando, ma sempre a cose fatte, vale a dire in un momento in cui gli effetti di stigma sociale si sono già consolidati.

A molti questo stato di cose nemmeno dispiace. I tempi frenetici dell’attualità non possono aspettare quelli più lenti della giustizia, che paiono troppo lunghi perfino quando si allineano su standard fisiologici e non raggiungono i livelli patologici della giustizia italiana.

Ma non è accettabile un sistema nel quale le indagini del pubblico ministero e della polizia giudiziaria costituiscano la più tempestiva risposta alla criminalità e la più efficace forma di contrasto nei suoi confronti. La “verità” accreditata dai media presso la pubblica opinione è solo la prospettiva dell’accusa, vale a dire il punto di vista parziale e unilaterale di una sola delle parti, il pubblico ministero, che elabora le sue conoscenze in segreto, senza partecipazione della difesa e in prospettiva colpevolista.

Anche su tale fronte c’è da auspicare un meditato disegno riformista, che abbia come espresso obiettivo politico quello di colpire al cuore il ruolo di attore sui generis della giustizia penale solidamente conquistato dal mondo dell’informazione. Tanto più ove si consideri che modifiche in tal senso si rendono necessarie anche alla stregua della recente – e tardiva – approvazione, lo scorso 30 marzo, della direttiva europea n. 2016/343/UE sul rafforzamento della presunzione d’innocenza. Tale direttiva prevede, tra l’altro, l’adozione di “misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole” (art. 4). Tuttavia, non è solo questione di regole di procedura. La sfida è più che altro culturale e sta tutta nella necessità di introiettare a livello sociale l’idea che i processi a mezzo stampa sono, per definizione, ‘non processi’.

Implicita all’idea stessa di giudizio penale è l’esigenza che con la qualità delle conoscenze sia garantita la piena salvaguardia delle prerogative difensive. Anzi, condizione stessa della qualità delle conoscenze, di cui si avvale il giudice penale, è che esse risultino costruite con la costante osservanza delle regole poste a salvaguardia del diritto di difesa.

Forse, solo quando questa grammatica elementare del processo non sarà più patrimonio delle élite, ma una consapevolezza condivisa da tutti, il rapporto fra giustizia penale e informazione potrà assumere i contorni di una fisiologica dialettica fra diversi attori, tutti portatori di pari dignità e considerazione, e non un perpetuo braccio di ferro fra diverse forze, ciascuna portatrice di una prospettiva autoreferenziale.

*professore di Diritto processuale penale e Diritto e procedura penale degli enti al Dipartimento di Giurisprudenza dell’ Unversità Luiss Guido Carli di Roma

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