di MATTIA FELTRI
In capo a due giorni bizzarri, nel corso dei quali HuffPost e io ci siamo imbattuti in una quantità di giudici instancabili, spesso sommamente severi, la maggior parte sprovvisti dei titoli e delle conoscenze necessarie – della professione e del caso – per emettere giudizio, penso sia mio dovere tornare, per l’ultima volta, sulla questione dell’onorevole Boldrini. Lo faccio perché mi dispiace che sulla redazione di HuffPost – una redazione meravigliosa, di ragazzi che lavorano seriamente dalla mattina alla sera, che non si lamentano mai, che sono un esempio di dedizione e di correttezza – si sia riversato tanto malanimo ingiustificato (ma anche tanta solidarietà). E lo faccio perché ero convinto che la mia succinta risposta all’onorevole Boldrini dell’altro giorno fosse sufficiente per respingere attacchi e accuse surreali. Evidentemente non era così.
Non nego, non ho mai negato, che questa volta intervengono questioni personali, del rapporto fra mio padre e me. Mi sono dato una regola: non parlo in pubblico di mio padre, da vent’anni, direi, perché qualsiasi cosa dica – nel bene e nel male – sarebbe usata contro di me. Qualche volta vorrei difenderlo, qualche volta vorrei criticarlo, ma come si vede in queste ore non c’è serenità d’animo per accogliere le mie parole per quelle che sono: il mio pensiero. Non ne parlo e non voglio che se ne parli sul giornale che dirigo. Quando mi è stato segnalato il riferimento dell’onorevole Boldrini nel suo post, ho deciso di chiamarla e di chiederle la cortesia di ometterlo. Era la prima volta che parlavo con lei in vita mia. Pensavo fosse una telefonata con una persona corretta e ragionevole. Ho sbagliato. Sbaglio molto spesso.
Poi torno a quella telefonata, ma prima tocca precisare che, più in generale, su HuffPost non ingaggiamo duelli con altri giornali. Se ci capita, è per ragioni eccezionali, ben meditate e condivise da redazione e direzione. Da che alla direzione ci sono io, non è ancora successo. Di sicuro non deleghiamo la pratica a un blogger, cioè a un ospite: se nel blog di Laura Boldrini il bersaglio fosse stato Luciano Fontana o Maurizio Belpietro, avrei fatto una telefonata molto simile.
Ma c’è un ulteriore particolare che forse Laura Boldrini ha dimenticato o trascurato, ed è la policy a cui tutti i nostri blogger sono sottoposti. Sulla policy c’è scritto che la redazione e la direzione si riservano di non pubblicare i blog senza dare spiegazione e senza nemmeno avvertire (un paio di settimane fa ho sospeso il blog di Carlo Rienzi del Codacons per una ragione che dettaglierei così: non mi piace). Non ci siamo inventati nulla.
Vale sempre e vale ovunque: in trentadue anni che faccio questo mestiere ho visto quotidianamente e più volte al giorno direttori buttare via articoli per mille motivi, di opportunità, di linea politica, di convenienza, di gusto, talvolta le scelte sono illustrate, altre liquidate alzando un sopracciglio, ed è la normalità eterna della stampa. Se nella policy le regole sono esplicitate, è proprio perché chi non pratica i giornali magari non le conosce, e crede di usare una testata come il suo profilo Facebook. Dentro queste regole, i blog di Huff hanno prosperato e costituiscono una comunità ricca, plurale e libera. Ma non licenziosa.
Dunque avrei potuto cestinare il blog e lasciare l’onorevole ai suoi fantasmi, nella piena legittimità di direttore. Ma mi sembrava sgarbato. Avrei potuto chiamare l’onorevole Boldrini e restare sul vago, ma mi sembrava disonesto. Invece sono uno stupido, e le ho detto le cose come stavano, nella fiducia di trovarmi a confronto con una persona con cui intrecciare un ragionamento. Lei ha rifiutato e, sul sottofondo delle sue proteste, pensavo che mi ero intrappolato con le mie mani, e all’impossibilità di uscirne: se avessi pubblicato, si sarebbe detto ecco anche il figlio scarica il padre eccetera; se non avessi pubblicato si sarebbe detto censura, e infatti l’hanno detto, senza conoscere il significato di censura; alcuni mi hanno persino spiegato che di mio pugno avrei dovuto aggiungere in coda al suo pezzo due righe di dissenso, ma temo sarebbe stata un’innovazione un po’ brusca e vagamente comica nella plurisecolare storia del giornalismo; in ogni caso lasciar correre sarebbe stato un tradimento verso gli altri blogger.
Mentre riflettevo su queste cose, l’onorevole Boldrini mi ha avvertito che, se non avessi pubblicato il blog, avrebbe reso pubblica la nostra telefonata. Ricordo di essere stato zitto un secondo, di avere valutato la violenza della minaccia, poi ho preso la decisione che continuo a considerare la più dignitosa: allora non pubblico, ho risposto. Ed è finita lì. È cominciata lì. Sulle accuse di sessismo e altre fantasie non mi voglio pronunciare: sono il napalm dei nostri tempi.
Mi rimane qualcosa da dire su Carlo Verna, il presidente dell’Ordine dei giornalisti. Due giorni fa, dopo aver letto la denuncia dell’onorevole Boldrini, ha rilasciato una dichiarazione all’Ansa parlando di censura inspiegabile. Inspiegabile perché non ho potuto spiegarla: non mi ha nemmeno telefonato. Cioè, il presidente del mio Ordine, sulla base di uno scritto su Facebook a firma di un’ex presidente della Camera, condanna pubblicamente un suo iscritto senza curarsi di sentirne le ragioni. Che, ripeto, sono ovvie ed eterne, ma se ne può sempre riparlare. Però io aspetto una sua chiamata da due giorni e non arriva. Possiamo parlare anche della censura.
La censura è la pratica di controllo del potere sulla stampa, per esempio di un’ex presidente della Camera che si arroga il diritto di prevalere su un direttore e decidere che cosa va pubblicato e che cosa no. Mi rendo conto che le parole ormai assumono i significati più arbitrari, in questo caso capovolti, ma vorrei chiedere a Verna come intenda ridefinire il ruolo del direttore, quali sono i confini del suo potere, della sua responsabilità, in che modo le sue scelte, fin qui considerate insindacabili, non diventino censura. E più precisamente se Verna immagini un giornalismo in cui il collaboratore, o pure il blogger, abbiano facoltà di imporre al direttore i loro articoli.
Comunque, siccome Verna mi ha rivolto un’accusa così violenta, immagino che ora si aprirà un’istruttoria su di me. È un bel problema. Con che serenità posso accettare un giudizio se il presidente ha già pronunciato la condanna? Oppure, molto più probabilmente, non si aprirà nessuna istruttoria, e le parole di Verna resteranno lì, nel nulla che valgono. In ogni caso continuo ad aspettare una sua telefonata, di scuse naturalmente, che sarò lieto di accogliere.
*editoriale tratto dall’ HuffPost