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5 Novembre 2024 18:36

La Corte Ue respinge il ricorso di Google contro la maxi-multa da 2,4 miliardi di euro. Le agevolazioni dell’ Irlanda ad Apple

Il colosso delle ricerche e pubblicità online costretta a pagare per abuso di posizione dominante. I giudici di Lussemburgo hanno inoltre ribadito l'illegalità delle agevolazioni fiscali per 13 miliardi concesse dall'Irlanda al gigante di Cupertino

La Corte di Giustizia dell’Ue ha confermato l’ammenda di 2,4 miliardi di euro inflitta a Google per aver abusato della propria posizione dominante favorendo il proprio servizio di comparazione di prodotti e ha annullato la sentenza del Tribunale riguardante i ruling fiscali adottati dall’Irlanda a favore della Apple.

Nel primo caso, l’impugnazione proposta da Google e la casa madre Alphabet è stata respinta. Nel secondo, i giudici di Lussemburgo hanno confermato la decisione della Commissione europea del 2016: l’Irlanda aveva concesso al colosso di Cupertino un aiuto illegale che tale Stato è tenuto a recuperare. Secondo le stime effettuate dalla Commissione, l’Irlanda avrebbe concesso alla Apple vantaggi fiscali illegali per un totale di 13 miliardi di euro.


Gli aiuti illegali dell’Irlanda a Dublino

Nel 1991 e nel 2007 l’Irlanda ha emesso due cosiddetti ‘ruling fiscali’ preventivi a favore di due società del gruppo Apple, Apple Sales International (Asi) e Apple Operations Europe (Aoe), che erano costituite come società di diritto irlandese, ma non erano residenti fiscalmente in Irlanda. Tali ruling fiscali approvavano i metodi utilizzati dall’Apple per determinare i loro utili imponibili in Irlanda, afferenti alle attività commerciali delle loro rispettive succursali irlandesi.

Nel 2016 la Commissione europea ha ritenuto che escludendo dalla base imponibile gli utili generati dall’utilizzo delle licenze di proprietà intellettuale detenute dall’Apple, per il motivo, essenzialmente, che le sedi di tali società erano situate al di fuori dell’Irlanda e che la gestione di tali licenze dipendeva da decisioni adottate a livello del gruppo Apple negli Stati Uniti, i ruling fiscali avessero concesso a tali società, dal 1991 al 2014, un aiuto di Stato illegale e incompatibile con il mercato interno, di cui aveva beneficiato il gruppo Apple nel suo insieme. Ha quindi ordinato all’Irlanda di procedere al suo recupero. Secondo le stime effettuate dalla Commissione, l’Irlanda avrebbe concesso alla Apple vantaggi fiscali illegali per un totale di 13 miliardi di euro.

Nel 2020, investito di ricorsi proposti dall’Irlanda nonché dalla Appleil Tribunale ha annullato la decisione della Commissione, ritenendo che quest’ultima non fosse riuscita a dimostrare l’esistenza di un vantaggio selettivo derivante dall’adozione dei ruling fiscali in questione e comportante una riduzione preferenziale della base imponibile in Irlanda. Con la sua sentenza, la Corte, investita di un’impugnazione proposta dalla Commissione, annulla la sentenza del Tribunale e statuisce definitivamente sulla controversia.

Secondo la Corte, il Tribunale è incorso in errori quando ha dichiarato che la Commissione non aveva sufficientemente provato che le licenze di proprietà intellettuale detenute dalla Apple e i relativi utili, generati dalle vendite dei prodotti Apple al di fuori degli Stati Uniti, avrebbero dovuto essere attribuiti, a fini fiscali, alle succursali irlandesi. In particolare, erroneamente il Tribunale, da un lato, ha dichiarato che il ragionamento principale della Commissione era fondato su valutazioni errate quanto alla tassazione normale in forza del diritto tributario irlandese applicabile nel caso di specie e, dall’altro, ha accolto le censure dedotte dall’Irlanda nonché dall’Apple contro le valutazioni fattuali operate dalla Commissione riguardo alle attività delle succursali irlandesi e alle attività al di fuori di dette succursali.

Il trattamento fiscale che l’Irlanda ha riservato alla società Apple per anni è – secondo la Corte di Giustizia europea – un trattamento illegale. E dunque quei 13 miliardi di euro devono essere pagati. “Questo caso non ha mai riguardato la quantità di tasse che paghiamo, ma il governo a cui siamo tenuti a pagarle. Paghiamo sempre tutte le tasse che dobbiamo ovunque operiamo e non c’è mai stato un accordo speciale”risponde alla decisione della Corte l’azienda. “Apple è orgogliosa di essere un motore di crescita e innovazione in Europa e nel mondo e di essere sempre uno dei maggiori contribuenti al mondo. La Commissione europea sta cercando di cambiare retroattivamente le regole, ignorando che, come previsto dal diritto tributario internazionale, il nostro reddito era già soggetto a imposte negli Stati Uniti. Siamo delusi dalla decisione odierna, poiché in precedenza la Corte di Giustizia aveva riesaminato i fatti e annullato categoricamente il caso“.

Perché Google è stata sanzionata

Dopo aver annullato la sentenza impugnata, la Corte ritiene che lo stato degli atti consenta di statuire sui ricorsi e che occorra statuire definitivamente su questi ultimi nei limiti della controversia che rimane pendente dinanzi ad essa. In tale contesto, la Corte conferma in particolare l’approccio della Commissione secondo il quale, in forza della disposizione pertinente del diritto irlandese relativa al calcolo della tassazione delle società non residenti, le attività delle succursali dell’Apple in Irlanda dovevano essere confrontate non con attività di altre società del gruppo Apple, ad esempio una società madre negli Stati Uniti, bensì proprio con quelle di altre entità di tali società, in particolare con quelle delle loro sedi situate al di fuori dell’Irlanda.

Con decisione del 27 giugno 2017, la Commissione ha constatato che, in tredici Paesi dello Spazio economico europeo (See), Google aveva privilegiato, sulla sua pagina di risultati di ricerca generale, i risultati del proprio comparatore di prodotti rispetto a quelli dei comparatori di prodotti concorrenti. Google aveva infatti presentato i risultati di ricerca del suo comparatore di prodotti in prima posizione e li aveva valorizzati all’interno di “boxes”, accompagnandoli con informazioni visive e testuali attraenti. Per contro, i risultati di ricerca dei comparatori di prodotti concorrenti apparivano soltanto come semplici risultati generici (presentati sotto forma di link blu) ed erano, per tale motivo, contrariamente ai risultati del comparatore di prodotti di Google, suscettibili di essere retrocessi da algoritmi di aggiustamento nelle pagine di risultati generali di Google.

La Commissione ha concluso che Google aveva abusato della propria posizione dominante sul mercato dei servizi di ricerca generale su Internet nonche’ su quello dei servizi di ricerca specializzata di prodotti e le ha inflitto un’ammenda di 2,42 miliardi di euro, per il pagamento della quale Alphabet, in quanto socia unica di Google, è stata ritenuta responsabile in solido per un importo di 523,5 milioni di euro.

Google e Alphabet hanno contestato la decisione della Commissione dinanzi al Tribunale dell’Unione europea. Con sentenza del 10 novembre 2021, il Tribunale ha, essenzialmente, respinto il ricorso e, in particolare, ha confermato l’ammenda. Per contro, il Tribunale ha ritenuto che non fosse dimostrato che la pratica di Google avesse avuto effetti anticoncorrenziali, anche solo potenziali, sul mercato della ricerca generale. Di conseguenza, esso ha annullato la decisione della Commissione nella parte in cui tale istituzione aveva constatato una violazione del divieto di abuso di posizione dominante anche per quanto riguarda quest’ultimo mercato. Google e Alphabet hanno quindi proposto un’impugnazione dinanzi alla Corte, mediante la quale esse chiedono l’annullamento della sentenza del Tribunale nella parte in cui ha respinto il loro ricorso, nonché l’annullamento della decisione della Commissione.

Con la sua sentenza in data odierna, la Corte rigetta l’impugnazione e confermato dunque la sentenza del Tribunale. La Corte ricorda che il diritto dell’Unione sanziona non l’esistenza stessa di una posizione dominante, bensì soltanto lo sfruttamento abusivo di quest’ultima. In particolare, sono vietati i comportamenti di imprese in posizione dominante che restringano la concorrenza basata sui meriti e siano dunque suscettibili di causare un pregiudizio alle singole imprese e ai consumatori. Tra tali comportamenti rientrano quelli che, con mezzi diversi dalla concorrenza basata sui meriti, ostacolano il mantenimento o lo sviluppo della concorrenza su un mercato in cui il grado di concorrenza è già indebolito, proprio in ragione della presenza di una o più imprese in posizione dominante.

La Corte precisa che non si può certo ritenere, in generale, che un’impresa dominante che applichi ai propri prodotti o ai propri servizi un trattamento più favorevole di quello che essa accorda a quelli dei suoi concorrenti tenga, indipendentemente dalle circostanze del caso di specie, un comportamento che si discosta dalla concorrenza basata sui meriti. Essa constata tuttavia che, nel caso di specie, il Tribunale ha effettivamente stabilito che, alla luce delle caratteristiche del mercato e delle circostanze specifiche del caso in esame, il comportamento di Google era discriminatorio e non rientrava nell’ambito della concorrenza basata sui meriti.

“Siamo delusi dalla decisione della Corte. Questa sentenza si riferisce a un insieme di fatti molto specifico. Abbiamo apportato modifiche nel 2017 per conformarci alla decisione della Commissione europea e il nostro approccio ha funzionato con successo per oltre sette anni, generando miliardi di clic per oltre 800 servizi di comparazione prezzi”, è stato il commento di un portavoce dell’azienda.

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