di Mario Calabresi
Ciò che sta emergendo in queste ore, attraverso la deposizione del procuratore di Modena Lucia Musti, conferma e rafforza ciò che la procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone aveva svelato ormai da mesi: una manipolazione delle carte giudiziarie per alzare il livello di un’inchiesta — che aveva e ha fondamento — affinché fosse affondato l’allora primo ministro. Colpendolo attraverso il suo punto debole, un padre discusso, con il vizio di muoversi in modo inappropriato sfruttando la posizione conquistata dal figlio.
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Quando il primo colpo viene assestato, lo scorso dicembre, Matteo Renzi ha già perso il referendum, è già un ex presidente del Consiglio e la sua parabola è discendente. È stato il giudizio dei cittadini a decretare questa svolta. Non un’indagine e nemmeno le sue deviazioni. Ma questo non toglie nulla alla gravità di ciò che è successo. L’idea che sia possibile disarcionare un primo ministro o chiudere una carriera politica attraverso la manipolazione di intercettazioni e un uso sapiente delle rivelazioni ai giornali è sconvolgente.
E non può essere paragonato e confuso con tutte le inchieste che in passato hanno avuto al centro leader politici. Questo non significa infatti che non possano essere le indagini a decidere le sorti dei politici (come nel caso della recente sentenza sulle malversazioni della vecchia guardia leghista) e che l’unico giudizio utile e accettabile sia quello delle urne — come sosteneva Berlusconi, che vedeva il voto come sola legittimazione esistente e come massimo scudo da ogni istruttoria — ma ci mostra che il sistema può essere inquinato e infiltrato.
Viene naturale chiedersi: ma se il fascicolo non fosse finito a Roma, se Pignatone e i suoi pm non avessero esercitato con tempestività e urgenza uno scrupoloso controllo su ogni atto e su ogni trascrizione cosa sarebbe successo?
I tempi della giustizia italiana, ce lo indica il caso Mastella, sono talmente lunghi da non garantire una pronta riparazione degli errori o da sventare manovre oscure. Con tutto questo dobbiamo fare i conti subito. Evitando però il gioco opposto, quello di politicizzare e generalizzare, perché in Consip il marcio c’era e ce lo conferma la condanna dell’ex dirigente Marco Gasparri che ha patteggiato una pena a un anno e otto mesi per avere ricevuto una mazzetta di 100 mila euro dall’imprenditore Alfredo Romeo.
Inoltre dobbiamo riconoscere che Renzi ha permesso che le accuse che arrivavano a lambirlo fossero verosimili perché ha compiuto l’errore di inserire al vertice di Consip, la struttura che gestisce i più grandi appalti pubblici d’Italia, figure di sua fiducia. Persone della cerchia stretta che stanno intorno a lui dai tempi in cui governava la provincia di Firenze. Ma va detto con chiarezza che al momento non esiste alcuna prova di un coinvolgimento di Renzi e di suo padre negli illeciti, così possiamo tornare a giudicarlo su quello che ha fatto, quello che non ha fatto, sugli uomini e le donne che ha scelto e nominato e sulle sue idee per il futuro dell’Italia.
Resta la necessità di liberare le istituzioni da pezzi di apparati che, come troppe volte nella storia d’Italia, agiscono in modo deviato e eversivo. Non contano le finalità per cui lo hanno fatto, se si sia trattato di mettersi al servizio di interessi politici, imprenditoriali o se abbiano soltanto seguito un’idea manichea di Giustizia, che trova consenso ideologico pure in una parte della magistratura.
Gli innegabili meriti conquistati dal colonnello Sergio De Caprio e dalla sua squadra con la cattura di Totò Riina non possono autorizzare proclami sul “golpe perpetrato contro i cittadini”, incompatibili con il suo ruolo istituzionale. Ed è sintomatico di questo corto circuito in cui un pezzo di Arma indaga sui propri vertici sospettandoli di subalternità politica il fatto che i vertici dell’Arma e il Ministero della Difesa si siano espressi solo ieri sera e molto blandamente su questi comportamenti.
Abbiamo richiamato decine di volte alla necessità di una democrazia normale, in cui l’autonomia della magistratura e il lavoro di tutti gli organi inquirenti vengano tutelati. Ma dove i cittadini abbiano diritto a un giudizio equo, senza inquinamenti e in tempi ragionevoli: tutti i cittadini, inclusi i leader politici.
*editoriale del direttore del quotidiano La Repubblica