di Remo Danovi *
Si parla spesso di passaggi epocali della giustizia, che si illude di rincorrere i suoi ritardi con le riforme dei codici e il processo telematico. Ma è in corso un passaggio molto più insidioso e pericoloso, con la rinuncia a giudicare le questioni controverse, e la moltiplicazione delle pronunce che dichiarano inammissibili o improcedibili i ricorsi, soprattutto in Cassazione. Tali sono infatti dichiarati tutti gli atti della difesa ritenuti non conformi alle regole formali, sempre più minuziose e restrittive, elaborate dalla giurisprudenza o introdotte dal legislatore con l’approvazione o il suggerimento della stessa magistratura. Qualche anno fa si tentò con i «quesiti di diritto»: innovazione abbastanza confusa e cervellotica, ripudiata dopo un brevissimo periodo di applicazione.
Poi si è passati al principio della «doppia conforme» fra tribunale e corte d’appello, che impedisce di eccepire in Cassazione qualunque difetto di motivazione; e, ancora, all’«autosufficienza dell’atto», che impone di dettagliare e produrre tutte le argomentazioni e gli elementi di prova nel medesimo atto, costringendo a mescolare argomenti e documenti. All’opposto, è stabilito il dovere di «sinteticità degli atti», limitando il numero di argomentazioni e di pagine. Tutto, sempre, sanzionato con l’inammissibilità. In Cassazione perfino il ricorso contrario a una decisione precedente è dichiarato inammissibile, quasi che il nostro sistema continentale sia stato sostituito dalla common law anglosassone. Una decisione del luglio scorso, infine, burocratizza i compiti del difensore che intenda impugnare la decisione a lui notificata con posta elettronica certificata dalla controparte.
L’avvocato deposita il proprio ricorso in Cassazione, entro i termini stabiliti dalla legge, allegando la decisione ricevuta e la «relata di notifica» via pec. Ebbene, nonostante la difesa della controparte nulla abbia eccepito, il ricorso è stato dichiarato improcedibile per inadempienza dell’avvocato, il quale avrebbe dovuto depositare anche una propria dichiarazione autografa, per attestare che la decisione allegata è esattamente quella ricevuta dal collega avversario. E cos’altro avrebbe potuto essere? il solo pensare il contrario è un’offesa alla dignità della professione!
Questi esempi, che possono apparire molto tecnici ma producono gravi effetti pratici per qualsiasi cittadino, testimoniano le gravi e contemporanee sconfitte della funzione giudicante e della funzione difensiva:
— la magistratura rinuncia alla propria essenza, e accetta sempre più spesso di non decidere sul merito, sulla fondatezza o legittimità delle domande formulate, attestandosi invece sulle preclusioni formali, neppure sollevate dalle controparti, nella speranza forse di ridurre il numero dei processi pendenti (non certo i tempi delle decisioni);
— l’avvocatura non riesce (o meglio, viene considerata incapace di farlo) a formulare domande ammissibili e procedibili, nel campo minato delle preclusioni processuali, con le gravi e conseguenti responsabilità nei confronti degli assistiti. Le due sconfitte generano anche un profondo disagio collettivo (il disagio della civiltà, direbbe Freud): non soltanto si incrina il rapporto tra avvocati e magistrati, e si altera in modo inammissibile (stavolta è d’obbligo!) il rapporto tra diritto sostanziale e processuale, a vantaggio del secondo; ma ad essere totalmente annullata è la fiducia del cittadino nei confronti della giustizia. È questa la deriva del processo!
Vedo un solo possibile rimedio a questa deriva: la diffusione degli strumenti alternativi già previsti dalla legge, che conferisce alle difese la facoltà di risolvere direttamente i conflitti tra le parti. È tempo che gli avvocati manifestino la volontà e la capacità di intraprendere questo percorso .
*Presidente Ordine degli Avvocati di Milano, già presidente del Consiglio Nazionale Forense