di CARLO BONINI
La nomina di Elisabetta Belloni a capo del Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza (e la contestuale conferma di Mario Parente alla direzione dell’Aisi) è una di quelle discontinuità che si misurano non solo e non tanto per il loro alto valore simbolico — la diplomatica è la prima donna nella storia repubblicana al vertice della piramide dei nostri Servizi — ma per la sostanza politica e per la nuova postura con cui il Presidente del consiglio Mario Draghi e il suo sottosegretario Franco Gabrielli, ridisegnano la nostra Intelligence.
O, meglio ancora, il concetto stesso di sicurezza nazionale e la sua declinazione.Non diversamente da quanto era accaduto con l’avvicendamento di Domenico Arcuri con il generale Figliuolo nel momento in cui si era trattato di riconsegnare alla dimensione e al metodo del “civil servant” le chiavi della campagna vaccinale, il sipario che Palazzo Chigi fa calare sulla figura del prefetto Gennaro Vecchione segna la restituzione a una dimensione compiutamente istituzionale di uno dei gangli più delicati della vita del Paese. E chiude dunque una stagione sciagurata di cui Giuseppe Conte era stato l’ostinato e goffo regista. Quella che aveva confuso il governo dell’Intelligence, del suo capitale di informazioni riservate, con un giro di nomine nelle municipalizzate. In una logica di occupazione tarata sulla fedeltà amicale al leader del governo.
Conte aveva nominato Vecchione per disassare e “sorvegliare” (nella logica della paura) un delicatissimo ingranaggio — l’Intelligence — di cui diffidava. Di cui non conosceva neppure la grammatica (capitò, per dire, che ad un basito direttore dell’Aise, la nostra intelligence estera, Rocco Casalino chiedesse quanto guadagnasse per valutare se la sua retribuzione di portavoce del premier fosse adeguata o meno) e di cui temeva il ricatto. Fino al punto da cooptare, promettendogli con insistenza e ostinazione la vicedirezione del Dis, una figura come quella di Marco Mancini (già protagonista chiave della infernale stagione del Sismi di Nicolò Pollari), un Fregoli degli apparati che — come la vicenda dell’incontro in autogrill con Renzi ha documentato — passava più tempo a massaggiare i suoi sponsor nel Palazzo, a sussurrargli all’orecchio (Conte era stato solo l’ultima delle sue innumerevoli conquiste), che a fare il mestiere per cui era ed è pagato.
L’arrivo al vertice del Dis di Elisabetta Belloni, che, a pieno titolo e a pieno merito, fa parte da tempo di quella che viene definita la riserva della Repubblica, mette dunque innanzitutto in sicurezza un comparto in cui non è dato muoversi come nel bar di Guerre Stellari. E non a caso mette di pessimo umore i 5 Stelle (che, ieri sera, si sono spesi per avvisare mari e monti come la nomina della Belloni sia stata “subita dal movimento“) Ma non solo. Con una mossa che si specchia nella scelta del presidente Usa Joe Biden di nominare al vertice della CIA, un diplomatico di lunghissimo corso come William Burns, Draghi dà al nuovo capo dell’Intelligence una curvatura che ricorda molto da vicino quella che — per restare agli Stati Uniti — è la figura del consigliere per la sicurezza nazionale.
La Belloni porta infatti in dote al profilo di capo dell’Intelligence un bagaglio di competenze, memoria storica e politica, una rete di relazioni maturati in 36 anni di diplomazia al servizio dello Stato, prima che dei presidenti del Consiglio che in questi 36 anni si sono succeduti. Dunque, una capacità di lettura geopolitica degli scenari di crisi di un mondo molto complicato e dagli equilibri volatili. A cominciare dai dossier Russo, Cinese, Turco. Non è una novità di poco conto. Soprattutto, non è un asset banale, se consideriamo l’Intelligence come strumento cruciale di ogni politica estera. A maggior ragione nel momento in cui il Mediterraneo torna ad essere l’epicentro di imprevedibili nuovi rapporti di forza e il nostro Paese è chiamato a recuperare il tempo perduto negli anni in cui, a Palazzo Chigi, si è perso più tempo a dare udienza a Marco Mancini, a dare la caccia alle “infedeltà politiche” negli apparati, piuttosto che ad occuparsi di cosa diavolo avvessero in mente Vladimir Putin e Racep Tayyp Erdogan sulla Libia.
*editoriale tratto dal quotidiano LA REPUBBLICA