ROMA – E’ una lettera dura, a dir poco imbarazzante per Luca Palamara. Una lettera che con sdegno prende le distanze da quanto emerso nelle intercettazioni di Perugia.
“Leggo sui giornali che durante il passaggio in tv da Vespa avresti espresso un senso di angoscia e disagio per i colleghi non legati alle correnti. Ma anche che alla domanda di Vespa sulla possibilità di dimetterti avresti risposto “non penso alle dimissioni, io amo la magistratura“.
“Non so se ti ricordi di me. E non credo – aggiunge la Ferriero rivolta a Palamara– visto che appartengo alla schiera di quelli, per fortuna tanti, che non sono finiti manco per sbaglio nella rete delle tue chat. Eppure noi abbiamo fatto il tirocinio – uditorato, allora si chiamava così – insieme a Roma. Siamo dello stesso concorso”.
“Io pure, non è che ricordi moltissimo di te durante quell’anno e mezzo trascorso negli uffici giudiziari romani. I pochi ricordi che ho – fulmina Palamara la collega – mi ti presentano come uno che organizzava feste, una sorta di Pr degli uditori DM 30/05/1996″.
“All’epoca registrai il fatto come un dato sostanzialmente neutro – prosegue Silvana Ferriero rivolta all’ex-capo dell’Anm indagato a Perugia per corruzione – . Ero appena approdata in un mondo per me completamente nuovo. Le mie energie e la mia curiosità erano convogliate verso il tentativo di capire e di imparare il più possibile di un mestiere di cui non sapevo niente. E che mi appariva difficilissimo”.
“Poi arrivò il momento della scelta delle sedi. E ognuno di noi prese la sua strada – ricorda la magistrata a Palamara – La mia mi portò in Calabria, a fare il giudice civile. Uno di quelli che smazzano carte per dieci ore al giorno. Lontani da ogni riflettore. E con l’incubo costante dell’arretrato. E delle possibilità di incorrere in qualche ritardo nei depositi. Per incidens questo incubo è stato, per anni, il cavallo di battaglia elettorale di tanti tuoi compagni di corrente. Sedicenti paladini in sede disciplinare di tutti quegli sventurati che avessero avuto la lungimiranza di ovviare alla sciagura di incappare in macroscopici ritardi con la provvida adesione alla corrente giusta”.
Non “ricordo dove ti condusse la tua strada nell’immediato. – sottolinea il giudice con amarezza – Ma so che in seguito fu costellata di tappe che sulla mia mappa non erano neanche segnalate. La presidenza dell’Anm, l’elezione al Csm“.
“Durante questi anni – elenca Silvana Ferrario – io sono stata giudice civile di primo grado, giudice penale di primo grado, giudice civile di Corte d’Appello, magistrato di Sorveglianza. E, poi, ancora giudice civile d’appello. Ho lavorato assai, con scrupolo, con zelo. Ma soprattutto con grande passione. Ho lavorato così tanto che, alla fine, mi sono innamorata di questo lavoro. Che, in realtà, avevo scelto quasi per caso”.
Ho “amato la ritualità del processo (diversa per il penale e per il civile ma sempre con una sua suggestione). – scrive ancora il giudice – La logica stringente del diritto civile, quella un po’ fantasiosa del diritto penale. Ho amato l’aria che si respira nei Palazzi di giustizia, la luce di certe aule in certe ore del giorno- L’atto di indossare la toga. Ho amato il confronto con i colleghi e con il foro. Il rapporto speciale con alcuni cancellieri, l’incontro prezioso con una umanità a volte miserabile a volte altissima. Ma sempre in qualche modo straordinaria”.
“Ho amato e temuto il potere terribile e formidabile di entrare nella vita delle persone fatalmente legato all’esercizio della giurisdizione. Ho cercato di usarlo – rivela la Ferrario a Palamara – con sapienza, con equilibrio, ma soprattutto con rispetto. Ho amato la possibilità che talvolta quel potere fornisce di raddrizzare un torto, di rimettere le cose a posto. Da lettrice compulsiva quale sono ho amato, forse più di ogni altra cosa, la promessa di una nuova storia che mi pareva di intravedere dietro la copertina di ciascun fascicolo che ho sfogliato. Ho amato l’impareggiabile soddisfazione, dopo ore e ore di studio, di essere colta all’improvviso, magari mentre cucinavo o facevo la doccia, dalla spontanea e inaspettata presentazione alla mia mente della soluzione giuridica corretta che stavo cercando”.
Sono “tra i tanti magistrati ai quali lo sfascio prodotto dal correntismo ha provocato solo danni indiretti. Non ho mai presentato una domanda per un direttivo o un semidirettivo – aggiunge il magistrato – Quindi la mancanza di uno sponsor non mi ha mai pregiudicato in concreto. Non sono mai incappata in vicende disciplinari. Quindi la presenza dello sponsor non mi è mai davvero servita. Come si dice? Nec spe nec metu”.
“Condivido con molti colleghi – dice la Ferrario a Palamara – la responsabilità di avere consentito con la nostra inerzia a te e a quelli come te di arrivare al punto in cui siamo. Potevamo fare qualcosa? Non lo so, certo non ci abbiamo nemmeno provato. La nostra responsabilità però non è neanche lontanamente paragonabile alla vostra. Il discredito dell’intera categoria. La rottura, forse irreparabile, del rapporto fiduciario che dovrebbe esistere tra noi e quel popolo in nome del quale amministriamo la giustizia sono frutto della vostra spregiudicatezza, della vostra insensibilità, della vostra insaziabile e incomprensibile sete di potere”.
Leggendo “molte delle intercettazioni pubblicate – conclude il giudice svergognando Palamara -, una delle domande che mi sono posta più di frequente è stata: ma questi perché hanno voluto fare i magistrati? Che c’entrano loro con l’esercizio della giurisdizione? Che ben venga allora la tua tardiva resipiscenza nei confronti dei magistrati non legati alle correnti. Ma, per piacere, risparmiaci la tua inconcludente professione d’amore per la magistratura. Non ho ancora capito bene che mestiere hai fatto in tutti questi anni. Ma so per certo che la magistratura è un’altra cosa”.