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22 Dicembre 2024 12:47

La magnifica ossessione chiamata giornalismo

Dati e fatti accertati. È la base, ma non basta.  I grandi cronisti sanno anche scegliere le storie  più importanti per comprendere il mondo

di Roberto Saviano

Ciò che fa di un giornalista un grande giornalista è l’ossessione, un’idea da cui non riesce a liberarsi e che gli rovina l’esistenza, che rende la sua vita fragile e gli equilibri precari. Un’ossessione che può avvelenare i rapporti familiari e che di certo avvelena i rapporti con colleghi e amici. Luke Harding è un giornalista inglese e scrive sul Guardian, è stato corrispondente estero da Delhi, Berlino e Mosca e ha seguito i conflitti in Afghanistan e Iraq. Harding è un giornalista, un grande giornalista e il suo racconto non prescinde mai dalla quotidianità e dalla cronaca. Harding ha un nemico giurato: il «governo mafioso di Putin» e un obiettivo: raccontare a cosa porta l’assenza di democrazia. Nel 2011, come conseguenza delle sue analisi sulla Russia, non gli fu rinnovato il visto per entrare nel Paese e all’incidente diplomatico furono trovate goffe scuse per celare l’unica spiegazione plausibile: Harding era inviso al Governo, meglio tenerlo lontano.

Ho apprezzato poi il suo recente lavoro sui Panama Papers e con lui condivido una visione del giornalismo che non può e non deve solo essere raccolta di informazioni, ma anche e soprattutto visione e analisi. In Italia, questa visione “romantica” del giornalismo sembra in qualche modo sopravvivere, preservata da un umanesimo di fondo, dalla posizione preminente che l’essere umano continua a occupare nel racconto del quotidiano, nonostante l’attenzione al dato. Una notizia è importante nell’economia generale del racconto delle nostre vite. Una notizia smette di avere utilità se riporta il dato per il dato, se mancano analisi, riflessioni e comprensione.

E il giornalismo anglosassone, che è giornalismo rigoroso, forse il più rigoroso di tutti è, con ogni probabilità, anche quello più esposto alla dittatura delle fonti. I giornalisti sono inattaccabili, i loro articoli dettagliati, ma spesso manca l’analisi, manca l’approfondimento e per non esporsi si commentano solo i fatti appresi in prima persona. O fonti di prima mano o silenzio. Luke Harding non si è mai piegato a questa logica e il suo lavoro è quanto di più prezioso possa esserci. Ed è tanto più prezioso perché l’orientamento è un altro. Vuoi scrivere di Isabelle Lagace e Melina Roberge, le due ragazze arrestate in Australia lo scorso settembre per traffico internazionale di cocaina? O le intervisti oppure non puoi farlo. E se parti da fatti di cronaca per proporre un’analisi stai plagiando le tue fonti.

 

Quanto sia assurdo questo modo di ragionare lo capiremo con il tempo, lo capiremo quando saremo sommersi dai dati ma sprovvisti di analisi. Ecco perché a un ragazzo o a una ragazza che condividesse con me la propria passione per il giornalismo, suggerirei di conoscere Luke Harding e di studiare i suoi scritti. E potrebbe magari partire da “Snowden. La vera storia dell’uomo più ricercato al mondo” libro edito da Newton Compton, il racconto del caso giornalistico più incredibile degli ultimi anni.

Il Guardian è stata la prima testata a pubblicare le rivelazioni di Edward Snowden, ex dipendente della NSA, l’Agenzia per la Sicurezza nazionale americana, rivelazioni che riguardavano tutti, il futuro e il presente della nostra privacy e che hanno alimentato un dibattito destinato a durare ancora molto a lungo.

E nella storia di Snowden, nella storia che Harding ci racconta, c’è un percorso incredibile che porta la “talpa” ventinovenne prima in Cina per rivelare ciò che sa e poi nella Russia di Putin per trovare riparo dalla giustizia americana inferocita. Per ora Snowden, dalle sue rivelazioni, ha ricavato solo notorietà e agli stolti questo basta per tacciare di opportunismo una scelta che in realtà gli ha rovinato per sempre la vita. Eppure esiste un pre e post Snowden: esiste un prima, in cui tutti credevamo di essere osservati senza averne prova e senza conoscerne le modalità. Ed esiste un dopo, in cui sappiamo esattamente come viene motivata la costante violazione della privacy e quali siano i soggetti “complici”. Ciò che mancava era l’analisi, la possibilità di capire cosa accadrà poi, quali saranno i rischi di domani.

E qui arriva Harding, la cui esperienza nel racconto e la cui lucidità nel collegare eventi apparentemente distanti, ci aiutano a capire che la nostra attenzione deve essere desta e sempre tesa a presidiare il bene più prezioso di tutti, che non è un dono, ma è nostro per diritto: la libertà.

*dalla rubrica L’ Antitaliano – del settimanale L’ Espresso ©

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