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22 Dicembre 2024 12:19

La notte più buia della Repubblica e quei serpenti sulla Costituzione

Giuseppe Conte rimette il mandato: è l’atto finale di una crisi che non è mai stata soltanto di governo, ma di sistema. Che il presidente della Repubblica è stato lasciato solo ad affrontare nella sua complessità e gravità

di Marco Damilano

Sergio Mattarella

Impeachment. La parola arriva alla fine di una serata drammatica, la più lunga della storia repubblicana, la più carica di veleni, miasmi, serpenti che avvolgono quello che di più importante ci resta, la Carta costituzionale, e il suo supremo garante, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nell’imbrunire svanisce il sogno del professor Giuseppe Conte di fare il premier non eletto del governo del cambiamento e si piomba in un incubo. La crisi di sistema, la rottura istituzionale, due capi partito che non hanno raccolto insieme la maggioranza degli elettori si atteggiano a padroni di quello che non è loro perché è di tutti. Minacciano il presidente della Repubblica, che vorrebbero ridurre a loro lacchè, dopo aver candidato a Palazzo Chigi un signor nessuno. Pensano di poter disporre degli organi costituzionali come se fossero cosa loro. Contrappongono quello che in uno Stato democratico non può mai essere opposto: la volontà popolare e le istituzioni, la legge della maggioranza e l’equilibrio dei poteri, il Contratto e la Costituzione. Fino al paradosso atroce di voler processare il presidente della Repubblica per attentato alla Costituzione perché ha fatto rispettare la Costituzione.

È l’atto finale di una crisi che non è mai stata soltanto di Governo, ma di sistema, e che pavide forze politiche, leaderini di terza fila e anche non pochi intellettuali, opinionisti, quel che resta della disastrata classe dirigente di questo Paese hanno considerato soltanto dal punto di vista di piccoli interessi di parte, lasciando solo il presidente della Repubblica ad affrontarla nella sua complessità e gravità. Così come stasera il tentativo del governo M5S-Lega non è fallito sul no del Quirinale alla candidatura di Paolo Savona al ministero dell’Economia, ma su qualcosa di molto più delicato. L’impossibilità in democrazia per chiunque di occupare le istituzioni che sono la casa di tutti. Su questo salta il governo Conte e le destre italiane tornano all’antico. Salvini, il nuovo leghista, fa lo sbrego costituzionale alla Miglio. Giorgia Meloni, querula e inesistente, torna alla matrice originaria che nulla a che fare con la Costituzione repubblicana e antifascista. E Luigi Di Maio in pochi minuti butta via mesi di lavoro per presentarsi con l’abito buono al giuramento di Palazzo e si accoda a fare il comprimario di Salvini in piazza.

In questo sfascio tocca a Mattarella provare a salvare la correttezza repubblicana. Per due mesi il presidente ha lasciato che i presunti vincitori delle elezioni del 4 marzo provassero a fare il governo, li ha ascoltati fino a oggi pomeriggio, quando ha proposto per il ministero dell’Economia il nome di Giancarlo Giorgetti, il più alto in grado della Lega dopo Salvini, invece di Savona. Ha puntato a costituzionalizzare i vincitori. Di più non poteva e non doveva fare, se non voleva consegnare l’istituzione presidenza alla prepotenza di due capibanda che poco sanno di euro, Europa, debito, spread, e molto vogliono di potere e di comando.

Al momento della sua elezione, nel 2015, scrissi che Mattarella sarebbe stato l’invisibile ma inflessibile custode della Costituzione. Oggi è uscito dall’invisibilità, e da quella condizione amara di solitudine in cui è stato lasciato da molti, troppi. Con l’intransigenza che molti conoscono. L’ira fredda dei timidi, terribile quando costretta a esprimersi perché si è perso il senso della misura. Con la pacatezza che si è sbagliato a scambiare per arrendevolezza. E ora c’è la metamorfosi cruciale del suo settennato.

Tutto questo servirà nelle prossime ore. Ora tocca a Carlo Cottarelli. Ma nel Paese tira un’aria fetida, di guerraccia tra bande, di scontro finale, quello che invoca Salvini con l’intendenza dei 5 Stelle. Mentre finisco di scrivere, su una panchina in una piazza di Roma, nel cuore di un quartiere borghese, sento un signore affacciato dalla palazzina di un condomino perbene che parla al telefono: “Devono tornare le Brigate rosse, fare con lui come fecero con suo fratello…” Mi si agghiaccia il sangue. Sarà una lunga notte. E una lunga strada.

*direttore del settimanale L’ESPRESSO

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