di Federico Anghelé
Strasburgo ci ha regalato una giornata storica per la lotta alla corruzione in Europa: il Parlamento europeo ha approvato la direttiva sul whistleblowing, che protegge in tutti gli Stati membri chi segnala illeciti, frodi, corruzioni e ogni violazione del diritto dell’Unione Europea. Con un’ampia maggioranza (591 voti a favore, solo 29 contrari) che va dalla sinistra della Gue passando per i Verdi (che l’hanno promossa e sostenuta più di tutti), i Socialisti e Democratici, i liberali di Alde, il gruppo dei Cinque Stelle fino ai Popolari, la direttiva dovrà ora essere recepita dagli Stati membri dopo alcuni altri passaggi formali.
Le attività del Parlamento si chiudono così con un’ottima notizia per la società civile europea: la legge sul whistleblowing è stata ottenuta soprattutto grazie a una anche straordinaria mobilitazione che ha visto coinvolte forze e competenze di vario genere – dall’Accademia ai sindacati, dai giornalisti alle associazioni che si battono per trasparenza e diritti civili – attraverso una coalizione paneuropea formata da oltre 90 sigle.
Una battaglia importante e dall’esito tutt’altro che scontato: quando “Riparte il futuro” – membro attivo di questa coalizione – 5 anni fa chiedeva ai candidati alle elezioni europee di impegnarsi per una direttiva in difesa dei whistleblower, le Istituzioni brussellesi nicchiavano sostenendo di non avere competenza a occuparsi di tale materia. E invece la tenacia ha premiato, anche grazie a un significativo sostegno dal basso: la petizione lanciata da “Riparte il futuro” con i suoi partner europei ha superato le 180mila firme.
Il testo approvato è importante per molteplici ragioni. In primo luogo perché stabilisce standard minimi di protezione e consente di superare le diversità di trattamento esistenti fra i vari Paesi europei. Infatti, circa metà degli Stati membri non hanno una legislazione dedicata; quelli che l’hanno introdotta hanno spesso normative parziali, com’è il caso dell’Italia che ha una legge approvata a fine 2017.
In secondo luogo, la direttiva contribuisce a cambiare la cultura d’impresa sul tema del whistleblowing: estende infatti l’obbligo di offrire canali di ricezione delle segnalazioni sicuri anche dal punto di vista informatico a tutte le aziende con più di 50 dipendenti (sia pubbliche che private) e conferma l’obbligo di svolgere indagini interne, portando dunque le aziende ad assumere un comportamento più proattivo nella prevenzione e gestione degli illeciti commessi all’interno dell’azienda. Ciò contribuirà anche a un cambiamento nell’opinione pubblica sulla percezione dei whistleblower, perché renderà l’istituto sempre più presente nella vita degli enti pubblici e privati.
Più in dettaglio, la direttiva copre quasi tutti i settori in cui l’Unione europea è competente (dalla sicurezza alimentare ai servizi finanziari, dalla tutela della privacy agli appalti, dalla salute e protezione dei consumatori alla sicurezza dei prodotti e dei trasporti). Fornisce una protezione legale a un ampio ventaglio di soggetti, fra cui consulenti, fornitori, stagisti e volontari: una novità per l’Italia, che dovrà dunque modificare la propria legge sul whistleblowing che garantisce protezione solo ai dipendenti.
Un altro aspetto che costringerà l’Italia a modificare la propria legge nazionale è rappresentato dall’equiparazione totale fra settore pubblico e privato che renderà disponibili canali di segnalazione interna sicuri per tutte le aziende con più di 50 dipendenti. La tutela legale riguarda il divieto (con la conseguente nullità) degli atti discriminatori o ritorsivi verso chi segnala, e l’inversione dell’onere della prova a carico del datore di lavoro, il quale dovrà dimostrare che la discriminazione è stata causata per motivi diversi dalla segnalazione avvenuta.
Un aspetto cruciale consiste nel fatto che il whistleblower potrà scegliere se segnalare internamente o esternamente al proprio ente (agli inquirenti o ai media) a seconda delle circostanze del caso concreto. Questo è stato un punto molto dibattuto nei mesi scorsi sul quale la coalizione della società civile si è impuntata, perché nella precedente versione della bozza era prevista una gerarchia nella segnalazione. In prima battuta si sarebbe dovuto segnalare internamente e poi solo dopo, in mancanza di riscontro, ci si sarebbe potuti rivolgere agli organi inquirenti. Associazioni e sindacati hanno combattuto questo provvedimento, sulla base della considerazione che sarebbe stato come chiedere al proprio datore il permesso di denunciarlo.
Una vittoria di cui gioire anche se permangono alcune ombre pesanti: in primis, il rifiuto di prendere in considerazione le segnalazioni anonime. Gli Stati membri, infatti, non avranno alcun obbligo di inserire riferimenti all’anonimato delle segnalazioni una volta che recepiranno la direttiva. Un secondo punto controverso riguarda la modalità in cui il whistleblower ha ottenuto l’informazione che vuole denunciare in modo “legale”: questa previsione (peraltro seguita anche dalla nostra Corte di Cassazione) non tiene conto del fatto che spesso il whistleblower, per procedere a una segnalazione fondata e supportata da prove, deve necessariamente acquisire documenti che non sono già in suo possesso o a cui non potrebbe accedere.
Ora che la direttiva è legge, gli Stati membri avranno due anni per recepirla dopo alcuni ulteriori passaggi formali. Sarebbe ideale se in sede di recepimento gli Stati membri estendessero la tutela anche ai lavoratori e alle lavoratrici di quei settori che al momento la direttiva non copre, come la sicurezza nazionale o la difesa.