di Luigi Marattin
Le “spese giudiziarie” sono quelle necessarie al funzionamento delle centinaia di procure, corti d’appello, tribunali (pulizia, manutenzione, bollette, ecc). Nel 1941, in mancanza di una adeguata articolazione territoriale del Ministero della Giustizia, la responsabilità di queste spese fu attribuita ai comuni. I quali poi presentavano il conto allo Stato, che erogava loro un contributo.Per 70 anni questo meccanismo ha funzionato senza che nessuno si lamentasse, perché il contributo copriva integralmente le spese che i comuni avevano sostenuto.
Dal 2011 i contributi sono calati (fino a coprire meno della metà delle spese), e i comuni hanno legittimamente iniziato a protestare. Questa vicenda rappresentava un perfetto esempio di spesa pubblica fuori controllo a causa di una inefficiente organizzazione del ciclo della spesa. Il miglior incentivo a minimizzare i costi esiste quando un solo soggetto“usa” “autorizza” e “paga” la spesa. Qui invece erano ben distinti: chi usava e richiedeva la spesa era il presidente del tribunale o il procuratore della Repubblica, che telefonavano al sindaco e chiedevano questo o quell’intervento di manutenzione o di abbellimento dell’edificio. Chi autorizzava la spesa era il comune, che da un lato non voleva… infastidire il richiedente, e dall’altro era comunque poco preoccupato, visto che tanto poi alla fine pagava lo Stato (che era appunto il “pagatore di ultima istanza”).
Nell’autunno 2014, il Governo Renzi intervenne. Adeguati (e non banali) cambiamenti organizzativi hanno fatto sì che il Ministero della Giustizia potesse cambiare i propri processi produttivi ed essere in grado di accollarsi direttamente queste spese, che nei precedenti 74 anni non aveva mai gestito direttamente. E così dal 1 settembre 2015 chi usa, chi autorizza e chi paga la spesa sono lo stesso soggetto. Che risultati ha avuto questo cambiamento organizzativo sull’ammontare della spesa? Negli ultimi anni del vecchio sistema, la spesa media era di 300 milioni all’anno. Nel primo anno del nuovo sistema, secondo le prime stime, la spesa è stata di 225 milioni. Per una riduzione del 25%. Il semplice cambiamento organizzativo, con il subentro di una gestione unitaria statale a molteplici e frammentati gestioni locali, ha ridotto la spesa di un quarto.
Alcuni esempi sono a dir poco bizzarri: un servizio di vigilanza armata notturna per un ufficio giudiziario ligure costava, nella vecchia gestione, 60.000 euro a quadrimestre. Ora ne costa 550. La pulizia degli uffici giudiziari di un capoluogo sardo costava 18.211,75 euro al mese. Nella nuova gestione, si è andati a gara pubblica, risparmiando il 60,46%. Stessa percentuale di risparmio per una gara analoga in Calabria (59,58%). E molti altri esempi ancora.
Che cosa ci insegna il piccolo caso delle “spese giudiziarie”? Due preziose lezioni.
1) Nella spesa pubblica italiana si annidano ancora consistenti sacche di inefficienza. Se per assurdo (ma forse non troppo) la stessa percentuale di risparmio ottenuta nel caso degli uffici giudiziari fosse estesa a tutto l’ammontare dei consumi intermedi della pubblica amministrazione, potremmo interamente cancellare l’Irap. O ridurre l’Irpef del 20%.
2) Questi risparmi non si ottengono con i tagli lineari, né con affrettate e mediatiche operazioni pubblicitarie. Occorre modificare la struttura dei processi produttivi della pubblica amministrazione, coordinando il lavoro di diverse strutture con competenza, ordine e metodo. E tempo.
Già, il tempo. In un paese nel quale per decenni la spesa pubblica è stata vista, vissuta e teorizzata come “soldi di nessuno” piuttosto che “soldi di tutti”, per raggiungere risultati veri purtroppo occorre tempo.
*Consigliere economico della Presidenza del Consiglio dei Ministri