di PAOLO COMI*
Il silenzio tombale che da mesi ha ormai avvolto le indagini sulla Loggia Ungheria, la P2 del terzo millennio, la cui esistenza era stata rivelata dall’avvocato Piero Amara alla fine del 2019 in diversi interrogatori davanti ai pm di Milano, si accompagna ad un altro silenzio: quello sul destino del suo ingentissimo patrimonio. Uno degli aspetti più inquietanti della gestione del “pentito” Amara è, infatti, rappresentata certamente dalla circostanza che le Procure interessate (Roma, Messina, Perugia e Milano) non hanno mai proceduto in questi anni al sequestro, anche in via provvisoria, dei suoi beni. E questo pur a fronte di fondati dubbi sulla liceità della sua provenienza. Il solo “sacrificio” richiesto ad Amara è stato il versamento volontario di poche decine di migliaia di euro in occasione dei vari patteggiamenti conclusi a Roma e Messina.
A proposito del patrimonio di Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, appare di fondamentale importanza evidenziare il ruolo della società Napag, la sua “cassaforte”, mai citata nelle fluviali dichiarazioni rese dall’avvocato siciliano alle Procure di mezza Italia. La Napag venne costituita a Gioia Tauro da Amara e dall’imprenditore Francesco Mazzagatti nel 2012 con un capitale di 10 mila euro. Inizialmente si dedica all’import-export di succhi di frutta; dopo due anni dopo cambia attività concentrandosi sugli idrocarburi. Nel 2017 ha ricavi record per 162 milioni. Come è stato possibile? È presto detto.
Per capire l’arcano bisogna tornare al 15 luglio 2019 quando l’Eni presenta una denuncia contro Amara, che “operava per conto della Napag”, alla Procura di Milano tramite Stefano Speroni, il neo direttore degli affari legali del colosso petrolifero. Prima di quella data il ruolo della Napag come “cassaforte” di Amara dove far transitare i soldi di dubbia provenienza era emerso dalle indagini fatte, in solitaria, dall’ex pubblico ministero della Procura di Roma Stefano Rocco Fava che a febbraio di quell’anno aveva fatto una richiesta cautelare e di sequestro dei beni nei confronti dell’avvocato siciliano.
L’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, insieme agli aggiunti Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli, aveva però deciso di togliere il fascicolo a Fava sostenendo, fra l’altro, che vi erano “perplessità” sul ruolo di Amara nella Napag. I soldi, come diceva sempre Giovanni Falcone, lasciano traccia e sono ancora tutti su un conto ad Abu Dhabi.
Poi c’è la questione della petroliera “White Moon”. Sempre l’Eni, il 13 giugno 2019, aveva presentato una denuncia alla Procura di Milano, indirizzata della dottoressa Laura Pedio, vice del procuratore Francesco Greco, segnalando che la White Moon era giunta “in prossimità del porto di Milazzo” alla fine del mese di maggio con un carico di greggio, acquistato dall’azienda del cane a sei zampe, non di provenienza irachena, come dichiarato dalla venditrice, la società di intermediazione nigeriana Oando, ma di “qualità superiore e più pregiata”. La compagnia petrolifera aveva segnalato, inoltre, che era stata accertata la falsificazione della documentazione di accompagnamento del carico e che la reale fornitrice del prodotto fosse la Napag.
L’Eni depositava una ulteriore denuncia, sempre diretta alla dottoressa Pedio, il 19 giugno 2019 segnalando la reticenza di Oando a dichiarare la reale provenienza del greggio una volta esclusa, in forza delle analisi chimiche effettuate, la sua provenienza irachena, trattandosi invece di greggio iraniano, soggetto ad embargo. Il 4 luglio 2019 sempre l’Eni depositava alla Procura di Milano la fattura di oltre 41 milioni di euro pagati dalla Oando alla Napag. E il 26 luglio successivo ancora l’Eni presentava una nuova denuncia allegando la documentazione contraffatta fornita a giustificazione della provenienza irachena del greggio. Niente è stato sequestrato dalla Procura di Milano ad Amara. Neppure il petrolio iraniano. Come mai? Mistero.
- articolo tratto dal quotidiano IL RIFORMISTA