di Lirio Abbate
È una zona del meridione consegnata da troppi anni nelle mani delle mafie. È il Gargano. È la provincia di Foggia, dove si continua a uccidere, e in questa guerra di mafia finiscono inesorabilmente anche vittime innocenti, come in tutte le guerre. Giornalisticamente la chiamiamo “mafia del Gargano”, ma giudiziariamente non c’è ancora una sentenza con la quale si può mettere il bollo per associazione mafiosa. E nemmeno sull’aggravante mafiosa. Agli imputati che investigatori e magistrati hanno portato anno dopo anno davanti ai giudici per chiederne la condanna per mafia, questa è stata ribaltata. Sempre assolti da questo reato, giudicati solo come banditi semplici. Criminali che però agiscono sotto la guida di un capo, di un boss che comanda una famiglia, un clan, i cui componenti vengono impiegati per intimidire, preparare attenti a cantieri e attività commerciali, e poi uccidere. Uccidere i rivali. Per questo è guerra. E in mezzo ci sono i cittadini che sono costretti a subire le aggressioni e a convivere con la paura.
Vieste è una cittadina turistica di 14 mila abitanti che negli ultimi decenni, grazie all’intraprendenza di tanti imprenditori, ha conosciuto uno straordinario sviluppo turistico valorizzando le risorse del mare, delle spiagge e dell’ampia foresta umbra e si è imposta come una delle mete turistiche del mezzogiorno. Oggi dispone di oltre cento mila posti letto, tra censiti e non, e l’intero paese è un grande albergo diffuso; ogni anno le presenze turistiche superano di molto i due milioni. Ma come spesso accade nelle cose belle del Sud, parallelamente, si mettono in moto dinamiche criminali attirate dall’esplosione di ricchezza. Il primo obiettivo di questa criminalità, ovviamente, non poteva essere che gli imprenditori a cui imporre servizi di guardiania e pagamento del pizzo; per chi non ci stava attentati, incendi, danneggiamenti. Questi gruppi criminali nel tempo diventano clan mafiosi e fondano la loro forza su una diffusa sottovalutazione, dall’opinione pubblica alle istituzioni al grido: “Questa non è mafia”. Un ritornello ripetuto anche da uomini delle istituzioni e da alcuni politicanti.
Il 29 luglio scorso, a 48 ore dall’ultimo omicidio compiuto a Vieste, durante una seduta urgente del consiglio comunale, aperto proprio sull’emergenza criminalità, il sindaco Giuseppe Nobiletti, un giovane avvocato, famiglia di albergatori, uno dei fondatori dell’associazione antiracket della cittadina, insieme ai consiglieri fa votare un documento con il quale chiedono un incontro urgente al Ministro dell’Interno Marco Minniti: non si tratta, come spesso accade in casi di questo tipo, di chiedere uomini, mezzi o sedi di forze dell’ordine. Il sindaco è chiaro in quello che dice: «Non chiediamo l’esercito a Vieste, chiediamo semplicemente che ci venga data la giusta attenzione».
Ci sono voluti, dal 29 luglio, altri quattro morti da aggiungere a questa guerra di mafia per far arrivare a Foggia il ministro dell’Interno che ha annunciato, dopo questa ennesima carneficina a San Marco in Lamis , in cui sono caduti anche vittime innocenti, la presenza del numero uno del Viminale.
Il vantaggio che la mafia del Gargano ha avuto, e continua ad avere, è questa condizione di marginalità mediatica nazionale che gli è stata data. Al contrario, purtroppo, gli abitanti di questo vasto territorio, la percezione mafiosa la vivono ogni giorno. E la vogliono contrastare.
Nel 2009 un gruppo di operatori turistici, sostenuti anche da Tano Grasso che all’epoca era presidente della federazione antiracket italiana, inizia a reagire all’intimidazione delle bombe; nasce l’associazione antiracket, arrivano le prime denunce e inizia la collaborazione con l’autorità giudiziaria. Si ha così il primo di alcuni processi contro gli estortori di Vieste, il più noto è stato chiamato processo “Medioevo”. Un dibattimento durato a lungo, segnato dalle testimonianze degli operatori economici che raccontavano ai giudici anni di violenze e soprusi; ogni mattina in cui si sarebbe svolta la testimonianza della vittima, da Vieste partiva un bus sul quale salivano commercianti e operatori turistici per accompagnare i colleghi in tribunale e far sentire la solidarietà e il sostegno dell’intera città a chi si esponeva con la propria testimonianza nell’aula di giustizia, davanti agli imputati.
Il 4 febbraio 2014 arriva la sentenza: gli imputati vengono condannati per estorsione, ma per i loro delitti, contro la richiesta dell’accusa, non si riconosce l’aggravante mafiosa. L’effetto è semplice, a poco a poco gli imputati vengono scarcerati, tornano in giro nel paese. Nelle scorse settimane la Corte d’Appello di Bari ha riconosciuto l’aggravante mafiosa ad un imputato.
Non ci vuole molto, purtroppo, perché siano “i fatti” a ribaltare quella sentenza. Colui che al processo era indicato come il “capo”, nel gennaio 2015, viene ucciso durante un raid mafioso ed è il primo di una lunga scia di omicidi che sta insanguinando questo territorio. Adesso sono queste azioni di morte che impediscono la possibilità di negare l’esistenza della mafia: se non sono bastate le denunce degli imprenditori, questi omicidi fugano ogni dubbio.