di STEFANO FOLLI*
In altri tempi, negli anni della prima Repubblica, una frattura come quella che divide oggi la maggioranza avrebbe già provocato la caduta del governo e l’avvio della ricerca di un nuovo assetto. Per almeno quattro ragioni.
Primo, perché il disaccordo tra Pd e M5S non è su un tema marginale, bensì sul nodo cruciale del rapporto con l’Unione europea: addirittura sull’utilizzo o meno del fondo salva-Stati (Mes). Secondo, perché le ultime settimane hanno mostrato un crescente appannamento del presidente del Consiglio, fino alla disastrosa apparizione televisiva di venerdì sera, dove Conte ha mostrato di aver esaurito le sue doti di mediatore, tanto che sul Mes si è contraddetto inseguendo un’impossibile coerenza. Terzo, perché il Paese rischia ormai una sorta di 8 settembre economico e sociale, mentre emergono tutti i limiti di una mediocre gestione dell’emergenza. Quarto, perché giunti a questo punto il Pd non poteva più tacere, a meno di non cedere tutto lo spazio politico ai Cinquestelle e di conseguenza permettere a Matteo Renzi di fare il suo rientro sulla scena come alfiere dell’Unione, magari intestandosi, con il suo partitino, la crisi del Conte 2.
Le ultime due considerazioni devono avere avuto un peso decisivo per sottrarre il vertice del Pd alle sue titubanze. Sta di fatto che nel giro di poche ore prima i due capigruppo Delrio e Marcucci poi il segretario Zingaretti hanno tagliato corto, dichiarandosi favorevoli al ricorso al Mes per fronteggiare le gravose spese sanitarie (purché, viene ripetuto come un mantra, i 36 miliardi del fondo siano erogati senza condizioni). Su questa linea si era già pronunciato con chiarezza Romano Prodi.
Ne ha fatto le spese, essendo stato smentito pubblicamente, il viceministro dell’Economia, Misiani, anch’egli del Pd. Peraltro si capisce cosa è successo. Misiani si era attestato sulla “linea Conte” quale estremo tentativo di mediazione: accettare il Mes, come è ormai evidente, ma garantire che l’Italia non vi farà ricorso in quanto, parole del premier, “non ne ha bisogno“. E magari ottenere dal vertice europeo qualche promessa sui futuri “eurobond” (al momento inibiti dai trattati).
Il fatto che la “linea Conte” sia stata accantonata dal Pd — al di là delle frasi di circostanza che garantiscono appoggio al premier — dimostra che la situazione è oltre la soglia di guardia. Ora il Presidente del Consiglio sa cosa deve fare al vertice della prossima settimana: attenersi senza ambiguità alla nuova rotta disegnata dal Pd, secondo partner della coalizione per numero di parlamentari. Ovvio che c’è da capire quale sarà la reazione dei 5S, il cui “capo politico”, Crimi, insiste nel dire no al Mes. Ma pochi credono che questa sia l’ultima parola dei “grillini”. La componente ministeriale del movimento non ha alcuna intenzione di uscire dal governo.
Certo, speravano che Conte tenesse meglio la posizione, ma al dunque la maggior parte di loro preferirà chinare la testa in attesa di tempi migliori. Il che non significa che tutto sia risolto: al contrario, la crescente debolezza di Conte può avere conseguenze a breve termine per iniziativa del Pd o renziana. Nel frattempo qualcosa cambia anche nelle file dell’opposizione. Sull’Europa la linea di Berlusconi quasi coincide con quella degli europeisti del centrosinistra ed è molto lontana da Salvini. Un punto da tener presente pensando ai prossimi scenari.
*tratto dal quotidiano LA REPUBBLICA