di Onofrio Romano*
Nel catalogo del leaderismo, Emiliano occupa un posto tutto suo: la categoria bifronte del “leader gregario”. Una contraddizione in termini, certo. Il leader, se è tale, costruisce mondi nuovi. Il leader gregario (fifone, per gli amici) sgomita invece per porsi alla testa dei mondi già allestiti da altri. Il leader si riconosce dalla capacità di lanciarsi nel vuoto a momento debito, mettendo a repentaglio la sua stessa sopravvivenza. Il leader gregario, invece, si lancia solo se sotto vi sono i pompieri ben piazzati col loro telo e se sa che, comunque vada, avrà salva la pelle, un ruolo di rimpiazzo e un tozzo di pane.
Nel 2004, a Bari, il piatto era già pronto: la destra barese tramortita, l’inedita “Convenzione” a sinistra e il risveglio civico fomentato da Città Plurale. Solo allora, Emiliano ci si ficca (nel piatto). Dopodiché ha cominciato a raccontare in giro che aveva vinto lui e solo lui. Quando si è trattato di dare alla Primavera lo slancio definitivo, il Nostro era dall’altra parte della barricata. La sera del 16 gennaio 2005, alla notizia della vittoria di Vendola alle primarie del centrosinistra, tutto quello che seppe dire fu: “al comitato di Fitto staranno già festeggiando”.
Per tacere del 2010. “Sputatemi in un occhio se mi candido alla Regione”. Poi quando capisce che forse D’Alema ce la sta facendo a defenestrare Vendola, si mette subito a disposizione dei congiurati. Salvo ritirarsi nuovamente di fronte al popolo in subbuglio a difesa del governatore uscente. All’opposto dei De Magistris, Emiliano non si pone come il “puro” che sfida i poteri esistenti. Cerca di annetterseli, a manca e… a destra. I padri-padrini che incistano il territorio non sono ruggine da scrostare in nome del mutamento ma fidi alleati da allevare (una volta riconfezionati in una qualche lista civica) e all’occorrenza da ospitare in giunta come fornitori di allievi.