di Marco Follini
Non si dovrebbe infierire troppo sul Partito democratico. Né dalla landa un po’ desolata dell’opposizione, né dal prato fiorito del governo e della sua maggioranza. Un robusto partito di alternativa serve infatti al buon andamento della dialettica democratica. E serve anche a tenere in miglior forma un esecutivo che farebbe bene a non crogiolarsi troppo contando i voti guadagnati e le bandierine issate qua e là.
Certo, il dato delle amministrative fa impressione. E i commenti del giorno dopo hanno aggiunto una cospicua quantità di sale sulle ferite del responso elettorale. Così, a questo punto, sparare a palle incatenate sul Nazareno diventa uno sport fin troppo praticato e per niente nobile. Quasi un invito a maramaldeggiare, a cui sarebbe bene non associarsi.
Ora, chi scrive ha qualche ragione in più per non unirsi al coro dei critici. Personalmente non posso dimenticare di aver ricevuto dal Pd delle origini una ospitalità generosa, e non vorrei mai infierire su chi si trova oggi nella maggiore difficoltà. Resta il fatto però che la crisi della politica (di tutta la politica) trova dalle parti del Nazareno un effetto moltiplicatore, e dunque non lascia troppo spazio a parole consolatorie.
Il punto è che il Pd è il partito che copre, da sempre, il territorio più esteso della politica italiana. Nasce essenzialmente dall’incontro tra alcuni che erano stati democristiani e alcuni che erano stati comunisti, più molti altri discendenti delle altre grandi famiglie del dopoguerra. Di qui la difficoltà di amalgamare, come si disse all’epoca, storie politiche tanto diverse e tanto controverse. Con, in più, l’ambizione di voler chiamare a raccolta nuove generazioni e dunque aggiungere nuove sensibilità. E, inevitabilmente, anche nuove complicazioni.
Così, mentre una parte del Pd ancora oggi sacrifica a piene mani incenso sull’altare di Moro e di Berlinguer, sapientemente accomunati, un’altra parte considera piuttosto che l’amalgama tra quei suoi filoni non sia riuscito più di tanto, e che dunque magari quelle due storie e culture prima o poi debbano riprendere la loro autonomia. Cosa che non avviene, si dirà. Ma che pure resta nell’aria, come a indicare l‘esistenza di una contraddizione non risolta e forse non risolvibile. Ultima puntata di un antico conflitto tra riformisti e massimalisti che già da molto prima aveva attraversato i destini della sinistra italiana.
Questo conflitto è rimasto per così dire senza esito. Salvo riproporsi di tanto in tanto accompagnando il frenetico andirivieni di segretari incoronati e rapidamente disarcionati. Alcuni dei quali peraltro approdati addirittura ad altri lidi -come è fin troppo noto. E se quelle ferite non sono mai state rimarginate del tutto, altre se ne sono poi aggiunte anche senza più dover scomodare i padri nobili.
La nuova segreteria di Elly Schlein avrebbe dovuto archiviare tutte queste dispute, voltando pagina e consegnando a un nuovo gruppo dirigente le leve del comando. Il fatto è però che se si è fatto finta di cancellare la differenza tra le storie del passato remoto, e se ci si è illusi di aver bruciato le scorie delle rivalità del passato prossimo, il Pd continua a tutt’oggi ad avere troppe identità, troppe sensibilità, troppe sfumature, troppe differenze al proprio interno per offrire certezze al proprio elettorato.
A tutte queste controversie ereditate dal passato sembra peraltro ora aggiungersi e quasi sovrapporsi un conflitto più inedito ma forse non meno lacerante. Conflitto di cui la nuova segretaria finisce per essere, insieme, la vittima e l’espressione.
Esiste infatti una linea di scissione -antropologica, non solo politica- tra un partito che si propone come assemblaggio di una classe dirigente collaudata e sperimentata e un partito che si offre come luogo di innovazione e sperimentazione. Da un lato c’è mestiere, esperienza, professionalità, un che di rassicurante. Dall’altro c’è invece una sorta di culto di una appassionata e al tempo stesso ingenua improvvisazione di cose nuove. E’ il derby tra l’astuzia e il candore, tra le volpi e le colombe, tra la sapienza dell’establishment e il movimentismo degli outsider.
Nei pressi di questo bivio, che anche Schlein prima o poi dovrà attraversare, si intuisce un’incertezza in più sul carattere del partito. Che da un lato porta appunto sulle sue spalle nobili e antiche tradizioni, e dall’altro sogna di inoltrarsi verso percorsi che nessuno fin qui ha mai attraversato. Sono i dilemmi che a suo tempo avevano riguardato anche i predecessori del Pd. Il Pci che Berlinguer amava definire “conservatore e rivoluzionario”, insieme. E la Dc che si considerava, con un po’ di ottimismo, alternativa a se stessa. Peccato però che i tempi non siano più quelli. E i protagonisti neppure.