di GIUSEPPE COLOMBO*
C’è un 25 luglio che Taranto ricorda benissimo. Quello di otto anni fa, quando un’ordinanza del gip mise sotto sequestro l’area a caldo dell’allora Ilva, la più grande acciaieria d’Europa. Il senso di quella decisione in due righe: “Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza”. Si apriva la travagliata stagione degli arresti dei Riva, la confisca dell’impianto, il lungo commissariamento.
Nemmeno la gestione affidata al colosso Mittal nel 2017 ha garantito stabilità. Otto anni dopo il futuro dello stabilimento è ancora incerto. Dieci giorni fa Giuseppe Conte ha scritto su Facebook: “Stiamo per chiudere il dossier”. E invece per capire come andrà a finire bisognerà aspettare almeno fine settembre. Dopo le elezioni in Puglia.
Un nuovo rinvio. L’elemento chiave del risultato dei 5 stelle in Puglia e le affinità con Emiliano
Il lavoro del Governo procede seppure sotto traccia, ma c’è un’altra incognita piombata sul percorso che dovrà chiarire chi avrà in mano l’impianto. Ma anche come si produrrà e quanto. E con quanti lavoratori, che significa anche decidere se e quanti esuberi ci saranno. Eccola l’incognita: il voto in Puglia del 20-21 settembre. Una fonte dell’esecutivo che è in prima fila nella gestione del dossier lo spiega così: ”È tutto fermo per le elezioni, fino a fine settembre le cose non si muoveranno”. Quindi si rinvia ancora. Anche gli umori sondati in casa Mittal e quelli che circolano tra i sindacati dicono la stessa cosa.
Il senso del ragionamento: gli equilibri tra le forze politiche che usciranno dalle urne sono un elemento ineludibile. Non nel senso che una vittoria di Michele Emiliano piuttosto che di Raffaele Fitto o degli altri candidati determinerà il futuro dell’Ilva. Il ragionamento prescinde dal nome del futuro governatore, bensì affonda le sue radici nei partiti che sostengono la corsa dei candidati.
Gli elementi chiave sono due. Il primo: il risultato che conseguiranno i 5 stelle. Più positivo sarà e più forte sarà la spinta che tradizionalmente arriva dal territorio verso una soluzione che punta all’idrogeno, sulla linea della soluzione a cui sta lavorando il ministro dello Sviluppo economico in quota M5s Stefano Patuanelli. Il secondo: la possibile convergenza tra i 5 stelle e il Pd sull’ex Ilva. Emiliano, infatti, vuole una decarbonizzazione dell’impianto, che è cosa simile anche se non uguale alla soluzione dell’idrogeno. La differenza, tuttavia, è sottile di fronte all’idea di base e cioè di cambiare il volto dell’area a caldo, il cuore pulsante dello stabilimento.
Il nodo esuberi ancora irrisolto
Il pre-accordo firmato tra il Governo e Mittal a marzo prevedeva una serie di passaggi che il Covid ha stravolto. Ma che restano in piedi perché l’accordo, siglato in tribunale, è in vigore. È entrando dentro questi passaggi che si capisce come la strada verso il futuro dell’ex Ilva è rallentata da numerosi ostacoli. Innanzitutto a inizio giugno Mittal ha messo le mani avanti su uno dei punti più delicati che il pre-accordo aveva lasciato aperto: gli esuberi. Proprio il virus e la crisi del mercato dell’acciaio hanno portato la multinazionale a presentare un piano durissimo, con cinquemila esuberi totali tra dipendenti Mittal e lavoratori in capo all’amministrazione straordinaria.
Il primo passaggio che salterà tra una settimana è quello del 31 luglio, data entro la quale bisognava chiudere un accordo con i sindacati proprio sul perimetro occupazionale. L’ultimo incontro tra il Governo e le organizzazioni sindacali è stato il 9 giugno, poi nessuno si è fatto più sentire. Ad oggi non è arrivata nessuna convocazione. I sindacati sono sul piede di guerra.
Ecco cosa dice Rocco Palombella, il segretario generale della Uilm, a Huffpost: “Sono passati 47 giorni e nonostante i nostri solleciti non abbiamo ricevuto nessuna comunicazione. In queste settimane abbiamo letto e ascoltato dichiarazioni del presidente Conte e del ministro Patuanelli sulla volontà del Governo di voler chiudere l’area a caldo e riconvertirla con una produzione ad idrogeno. Non si era mai verificato un atteggiamento così ambiguo e irresponsabile da parte dei Governi che si sono avvicendati. La situazione è esplosiva da un punto di vista sociale, non c’è tempo da perdere”.
Il Governo al lavoro sul ruolo dello Stato. Questione di soldi. E di strategia industriale
La pre-intesa prevedeva l’ingresso dello Stato a fianco di Mittal. Anche questo punto è tutto da definire. L’amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri e il super consulente del Governo Francesco Caio stanno coordinando i lavori della squadra chiamata a fissare il prezzo di questo ingresso. E non è ancora chiaro se lo Stato, attraverso Invitalia, alla fine sarà maggioranza o minoranza nella nuova Ilva. Bisogna poi capire la modalità di produzione dentro lo stabilimento. Impianto con un forno elettrico e a gas, a idrogeno e decarbonizzazione non sono la stessa cosa.
L’incognita dell’addio di Mittal
Nelle scorse settimane Lucia Morselli, l’amministratore delegato di Mittal Italia, ha annunciato la volontà della multinazionale di restare a Taranto. C’è però una data – il 30 novembre – che è ancora in vigore. Entro quella data, i franco-indiani possono lasciare l’impianto pagando una penale di 500 milioni. Ecco perché la corda non può essere tirata oltre novembre: o entro quella data si dà forma alla pre-intesa oppure il rischio è che il banco possa saltare. Anche perché più di una fonte industriale rivela che i Mittal non hanno del tutto escluso la possibilità di fare le valigie.
L’ex Ilva oggi. Il peso della cassa integrazione e il ritorno della magistratura
Quello che è sicuro ora è che a Taranto regna l’incertezza. Su 8.200 lavoratori che conta Mittal, 3mila sono in cassa integrazione Covid. E dal 3 agosto ripartirà la cassa ordinaria per 13 settimane. I 1.700 dipendenti dell’amministrazione straordinaria sono in cassa straordinaria dal 2018. La produzione viaggia a livelli minimi, intorno alle 4,5 milioni di tonnellate all’anno.
Ed è ritornata anche la magistratura. La Procura indaga per truffa ai danni dello Stato: nel mirino c’è l’utilizzo della cassa integrazione durante il lockdown. Un uso che chi ha sollevato il caso ritiene illegittimo perché l’azienda aveva ottenuto anche la deroga per continuare a lavorare durante i mesi di blocco. Otto anni dopo il cerchio non si è chiuso.
*editorialista dell’ HuffPost