di Alessandro De Angelis
Ecco, anche Andrea Orlando rinuncia a entrare nel governo, per dedicarsi al partito, perché agli Esteri, nel gioco di veti e controveti deve andare Di Maio. Questo dopo che due giorni fa, Dario Franceschini aveva rinunciato al ruolo di vicepremier per costringere Di Maio a mollare la sua poltrona di vice. E dopo un’altra rinuncia al vicepremier unico e, prima ancora, alla madre di tutte le rinunce: la discontinuità su Conte, l’avvocato del contratto gialloverde, ora benedetto dall’establishment nazionale come uno della provvidenza.
Questa storia, dove la parola chiave è “rinuncia”, si conclude, alla stretta finale, col Pd fuori da Palazzo Chigi, dove si consuma una tensione tutta interna al partito che ha ritrovato una centralità politica, trascinato dal plebiscito su Rousseau, diventato da “algoritmo” opaco, che cozza con le consuetudini costituzionali, a grande levatrice del nuovo governo del cambiamento.
Dicevamo, la tensione. Perché, a notte fonda, il premier incaricato rivendica per sé tutta la sovranità di palazzo Chigi. Per la casella di sottosegretario alla presidenza, vero centro nevralgico dell’attività di governo (da Gianni Letta a Giorgetti) si impunta sul nome di Roberto Chieppa, il segretario generale della presidenza del Consiglio. Nome che cozza non con quello di Dario Franceschini, ma con le aspettative e le ambizioni di Vincenzo Spadafora. Detto in modo un po’ tranchant: Conte vuole un uomo suo, Di Maio vuole uno suo, nell’ambito della competition sulla leadership tutta interna al Movimento. E il premier, altra novità piuttosto inusuale, rivendica per sé anche la delega ai servizi. È la fotografia di Palazzo Chigi come di un luogo autonomo rispetto al principale alleato di governo. Quasi da governo del presidente, in cui il premier ha un potere giustificato dall’eccezionalità e non dall’ordinarietà di un accordo politico o di un “contratto”.
Diciamo le cose come stanno. Le figure chiave, che qualificano un governo, sono il premier, poi il ministro dell’Interno, l’Economia e gli Esteri. Sono queste caselle che ne danno immagine e sostanza. Ed è su queste che si gioca la partita per l’egemonia nel governo. Ecco: i Cinque stelle hanno Conte e Di Maio. Il Pd, almeno così pare fino a notte fonda, accetta lo schema di un “tecnico” all’Interno. E, sulla casella dell’Economia, per evitare un altro tecnico, spinge per Roberto Gualtieri (leggi qui Giuseppe Colombo). Sono le due caselle su cui c’è un’attenzione del Quirinale. Sarebbe sbagliato dirla così: Mattarella vuole un “tecnico” al Viminale. È più corretto dirla in questo modo: Mattarella, secondo una lunga consuetudine repubblicana, non ritiene opportuno che al Viminale ci sia un leader di partito, dopo la parentesi di Matteo Salvini.
Perché il Viminale non è un set della propaganda, ma un luogo dove si lavora e si appare poco, e chi lo ricopre deve essere vissuto più come una figura “istituzionale” che “di parte”, di cui si fidano anche gli avversari politici. Non è un caso che, nell’infinita saggezza democristiana, mai nessun leader di quel partito ha ricoperto il ruolo di ministro degli Interni. Questa premessa spiega il no a Di Maio, che ancora ieri sognava di andare in diretta Facebook contro il suo predecessore. Il gioco dei veti – quello del Pd su Di Maio, quello dei Cinque stelle sul Pd spiega perché la scelta sia tra il capo della Polizia Franco Gabrielli e Luciana Lamorgese, il prefetto di Milano.
Ecco, passa al Nazareno l’idea di “spoliticizzare” il terreno dello scontro politico dei prossimi mesi con Salvini, defilandosi dalla questione cruciale. È la rinuncia a una linea, un messaggio, un punto di vista “democratico” sul terreno dell’immigrazione, affidato al ministro degli Esteri e al premier nel rapporto con l’Europa, e a un tecnico in Italia. Un tecnico, non un politico che governi l’annunciata offensiva politica di Salvini sull’invasione, sugli sbarchi e l’altrettanto annunciata insofferenza dei sindaci leghisti sulle politiche di accoglienza. E che interpreti il cambiamento nel governo e nel paese. C’è, in questa scelta, l’opposto: evitare cioè che il nuovo ministro diventi il bersaglio di Salvini. Un po’ come durante le Europee, quando il Pd provò (in quanto diviso tra la linea Minniti e quella delle Ong) a parlare d’altro nel tentativo di cambiare l’agenda, tranne poi constatare che la realtà non si rimuove.
Ricapitolando. Qualche giorno fa, in nome del sì a Conte, il Pd chiedeva Interni, Economia e Esteri. Ora il tasso di politicizzazione di un governo che assomiglia a un “governo amico” è appeso al tentativo su Roberto Gualtieri all’Economia. Il cui curriculum deve passare al vaglio del Quirinale dove, assicura chi ha i contatti col Colle, la preferenza è per una figura tecnica, che abbia una consolidata esperienza in materia di conti pubblici. Altro terreno ad alta intensità politica. Perché è vero quel che tutti si attendono che l’Europa avrà una maggiore benevolenza col nuovo governo in materia di flessibilità. Ma è anche vero che la prossima finanziaria non sarà propriamente il paese di Bengodi. E un ministro che comunque deve mostrare prudenza e realismo in materia di conti è un altro capitolo di quella benedetta “responsabilità” nazionale che, più volte, a sinistra si è trasformata in una donazione di sangue.