I tentativi del Commissario governativo Piero Gnudi di reperire sui mercati internazionali un acquirente per l’ ILVA di Taranto sono ormai conclusi. L’unica trattativa e quindi possibilità realistica è quella in piedi con il gruppo franco-indiano Arcelor Mittal, a cui è affiancato il Gruppo Marcegaglia. L’unico altro interesse, ma mai formalizzato con una offerta è quello del gruppo indiano Jindal. Ma come dicevano i contatti e negoziati avanzati sono rimasti solo quelli con Arcelor Mittal, che ha già deciso il proprio “advisor” e cioè la banca d’affari statunitense Jp Morgan affiancata dagli studi legali Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners e Cleary Gottlieb.
Dopo le visite effettuate nella scorsa settimana dai managers della Jindal presso lo stabilimento siderurgico dell’ ILVA di Taranto ed a Genova, non è stata ancora formalizzata senza offerta, così come sono state vane le ricerche di Gnudi che ha sondato la Banca internazionale d’affari Rotschild. Anche le prime manifestazioni d’interesse del gruppo cinese Anshan Iron Steel non hanno fruttato alcuna offerta, nessuna trattativa. Nessuna risposta.
A questo punto si attende di ricevere il progetto industriale che Arcelor Mittal ed il Gruppo Marcegaglia con la banca Jp Morgan presenteranno e dovrebbe portare alla definizione di un’offerta economica che secondo il Governo italiano ed il commissario Gnudi non potrà essere a costo “ZERO”. Infatti da voci circolanti nella Capitale si hanno buone speranze che la Procura di Milano sblocchi il maxi sequestro sui conti riconducibili alla famiglia Riva, consentendo al Commissario governativo di garantire la necessaria liquidità di cassa. Per grande gioia delle banche che rientrerebbero del maxi-prestito-ponte all’ ILVA.
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Unico a spiegare molto bene cosa è successo nel frattempo , e cosa si muove dietro le scene è Massimo Mucchetti, ex-vicedirettore del Corriere della Sera, ora senatore eletto come “indipendente” nelle liste del Pd, giornalista molto più addentro alle questioni e sopratutto molto più affidabile della screditata stampa tarantina che è finita con le mani nella marmellata nell’inchiesta della Magistratura, e chi ne è rimasto fuori nulla sa e nulla capisce di politiche industriali. E da Presidente della Commissione Idnustria del Senato, lo faceva nel suo blog . Leggete cosa diceva sin dallo scorso 30 giugno.
“TROVARE I SOLDI PER IL RISANAMENTO. Tutta la vicenda ILVA, a osservarla bene, gira intorno a questo punto. L’unica soluzione per tutelare la qualità della vita a Taranto scorre infatti lungo due condizioni necessarie, inconciliabili senza un risanamento ambientale: la garanzia della salute e del diritto al lavoro. Ma prendere i soldi ai Riva, colpevoli di non averli spesi quando dovevano, significa trovare il modo di sottrarre loro una parte dei profitti. In prima battuta identificati dalla Procura di Taranto in quei semilavorati e prodotti finiti, per un valore di circa un miliardo, sequestrati nel novembre 2012.
Il primo decreto Salva Ilva, del dicembre 2012, ci metterà sei mesi a sbloccare la merce dalla banchina, quando la Sentenza della Consulta respingerà il ricorso per incostituzionalità e gli restituirà forza di legge, stroncando l’ipotesi accusatoria a fondamento dell’inchiesta dei magistrati tarantini iniziata già negli anni ’80.
In risposta, la Procura di Taranto alza il tiro, questa volta mirando diritto al cuore: dieci giorni dopo lo sblocco dei prodotti finiti dispone alla capogruppo Riva Fire un maxi-sequestro di 8,1 miliardi, equivalenti al valore monetario dei necessari interventi di risanamento ambientale omessi dall’ ILVA, equivalenti al “profitto del reato”. Un’equazione non immediata e che ha costituito il perno dell’audizione del procuratore capo di Taranto Franco Sebastio alla Commissione Industria del Senato, lo scorso 13 giugno, di cui si riportano a seguire alcuni estratti.
Se le argomentazioni di Sebastio hanno convinto poco la Commissione Industria, sicuramente non hanno persuaso la Corte di Cassazione che, chiamata a intervenire sul ricorso di ILVA al maxi-sequestro, sei mesi dopo ha bocciato sia la definizione teorica del profitto assoggettabile a sequestro, sia la sua stima monetaria. Secondo la sentenza della Corte, il provvedimento di sequestro “non quantifica con esattezza i costi storici delle tecnologie omesse”.
Difficile affermare il contrario, visto che nella relazione dei custodi è assente qualsiasi spiegazione della metodologia di quantificazione utilizzata, e per di più, i conti non tornano. Come ricordato in audizione, la somma dei singoli interventi citati totalizza poco più di due miliardi, contro gli oltre otto sottoposti a sequestro dalla Procura di Taranto. Da dove escano gli altri sei rimane tuttora materia di ragionevole dubbio.
I due njet delle Alte Corti, a un anno e mezzo dal sequestro degli impianti dell’area a caldo, lasciano la Procura di Taranto senza bottino, equivalente o non: i 2,1 miliardi in cash, partecipazioni e beni raccolti dalla Guardia di Finanza sotto l’egida del maxi-sequestro, costati parecchi affanni all’attività aziendale, tornano di nuovo indietro. Non più ai Riva, ma nelle mani più savie di Enrico Bondi, commissario straordinario dell’ Ilva e delle sue controllate, a fianco di Edo Ronchi. Una nomina, quella di Bondi, approvata dal Governo Letta ad agosto (del 2013 n.d.r.) , che contiene tra le sue priorità un piano industriale che rispetti le prescrizioni dell’AIA, così come riesaminata nel 2012, migliorando gli scenari sconfortanti prospettati dalle valutazioni del danno sanitario dell’Arpa Puglia, che avevano motivato il blocco degli impianti da parte della magistratura tarantina.
A fine 2013, con gli interventi di politica industriale per l’ ILVA – i primi dopo molti anni rivolti a un’azienda-settore – il Governo ha definito gli elementi di cornice al risanamento: una gestione aziendale efficiente, una nuova Aia e un piano industriale per garantirla, attraverso l’adozione della tecnologia innovativa del pre-ridotto, con costi stimati intorno ai 3 miliardi (meno della metà degli 8,1 paventati dalla Procura di Taranto). Dei soldi dei Riva necessari per il finanziamento a Taranto però non c’è nessuna traccia. Certo, perché a Taranto non sono. E’ stata la Procura di Milano, con una lunga storia di successi nella persecuzione di reati economico finanziari, la prima e l’unica, a mettere davvero le mani sul bottino dei Riva. Che non è in Italia o nell’ ILVA, come ipotizzato dai magistrati locali, ma da diversi anni migra nell’isola di Jersey per evadere il fisco.
Denaro che viene inghiottito in una complessa architettura finanziaria, da cui i pm milanesi, con due operazioni successive, nel maggio e nell’agosto 2013, hanno già sequestrato l’equivalente di 1,9 miliardi di euro. In conti correnti, quindi liquidi e facilmente spendibili. La citazione in giudizio dei Riva lo scorso novembre per 500 milioni di euro, sottratti illecitamente all’ ILVA dalla Riva Fire tramite contratti di assistenza e servizio, ha mostrato l’attitudine di Bondi a lottare in prima linea per reperire le risorse necessarie all’azienda. Ma sarà l’accesso ai fondi sequestrati dall’indagine milanese per frode fiscale, previsto dal decreto Ilva-Terra dei Fuochi nel caso i Riva non rispondano all’aumento di capitale, a conferire a Bondi la vera arma per costringere a finanziare il risanamento. E con la quale finalmente i Riva dovranno pagare per Taranto.
Il 29 aprile 2014, mentre Bondi sta discutendo con le banche e il governo la ricapitalizzazione, muore Emilio Riva, storico patron dell’ ILVA di Taranto. Probabilmente, con la morte di Emilio Riva finisce un’era e tutto passa in mano al figlio Claudio, ma il vento sembra cambiato. Matteo Renzi dichiara pubblicamente che su Ilva “serve un cambio di passo” e sullo sfondo, secondo indiscrezioni stampa, sarebbe già pronta una cordata ArcelorMittal, gruppo Marcegaglia e Arvedi per rilevare lo stabilimento e porre fine alla gestione commissariale di Enrico Bondi”
Parole profetiche.
GUARDA QUI. Il video integrale dell’audizione in Commissione Industria del Senato, di Franco Sebastio, Procuratore capo di Taranto, giugno 2013