di Claudio Giua*
In termodinamica l’entropia è la misura del grado di equilibrio raggiunto da un sistema in un dato momento. Descrive cioè il caos, che aumenta a ogni cambiamento del sistema osservato. Il concetto di entropia viene utile anche in sociologia e politica. Dagli albori dell’umanità il caos cresce perché, all’innalzarsi del numero di esseri pensanti, si moltiplicano le interazioni. Non è uno sviluppo lineare, ci sono discontinuità forti come le guerre, le epidemie, le carestie, le migrazioni, le tensioni sociali e razziali, i conflitti economici e religiosi. Influiscono anche eventi storicamente minori: per esempio, in queste settimane l’entropia italiana è condizionata dalle conseguenze del referendum costituzionale, dal pasticcio grillino a Roma, dall’attacco bretone a Mediaset, dalla crisi bancaria.
Infine, ci sono le tecnologie. Dalla forgia alla ruota, dalla macchina a vapore al chip, ogni innovazione fa salire l’entropia. Gli strumenti abilitanti dei rapporti unidirezionali da-uno-a-molti (i libri, i giornali, le radio, le televisioni) e bidirezionali uno-a-uno/molti-a-molti (la posta, i telefoni, le chat, i social) paradossalmente non riducono l’entropia. Anzi. E nessun mezzo di comunicazione, nemmeno la tv, ha avuto gli effetti che la rete e, in particolare, i social network stanno producendo nell’influenzare, facendole interagire, enormi masse di persone. Che in larga misura sono cittadini ed elettori che inconsapevolmente si prestano a che l’entropia salga, salga, salga.
Torniamo all’Italia e all’Europa. Da noi l’entropia sociopolitica avrò un picco nell’imminenza delle elezioni politiche, da convocare una volta sistemata l’incresciosa faccenda della legge che non c’è. Anche i cittadini francesi, tedeschi e olandesi saranno chiamati alle urne nel 2017. Nemmeno quelle saranno elezioni serene. Temi come l’immigrazione e il terrorismo islamico hanno avvelenato i pozzi sociali e politici; è tutt’altro che risolto il confronto tra chi impone l’austerità e chi propone investimenti per lo sviluppo; la nuova leadership americana creerà sconquassi. Tutti fenomeni con vastissima eco digitale.
In questo scenario sono prevedibili cyberattacchi e bufale digitali come piovesse. Analogamente a quanto accaduto nell’ultimo anno negli Stati Uniti (agli scettici sull’argomento consiglio la lettura del commento di Paul Krugman sul New York Times del 13 dicembre), Putin condizionerà con i suoi hacker i risultati dei voti europei per favorire gli amici della Russia, piazzati a destra e tra i nuovi populisti che da noi hanno i propri campioni in Salvini e Grillo. Saranno proprio loro i megafoni inconsapevoli della nuova disinformatja che viene da est. Perché le campagne elettorali si faranno nelle piazze, nei talk show e sui giornali ma si decideranno sulla rete. Più specificatamente, su Facebook, su YouTube, su Twitter. Se ne sono accorti perfino a Bruxelles, dove la velocità d’esecuzione è di solito opzionale: nelle sue ultime direttive la Commissione Europea raccomanda agli enti pubblici di concentrarsi sui contenuti da collocare subito sulle piattaforme di comunicazione sociale e di smetterla con i siti, inutili e obsoleti.
Un paio di conferme empiriche. Mio nipote, 23 anni, non segue le dirette tv di Sky Tg24 né quelle di Radio Radicale. Eppure il 18 dicembre, pochi minuti dopo l’intervento di Roberto Giachetti che verrà ricordato per l’invettiva “Roberto Speranza, hai la faccia come il culo“, ha condiviso su YouTube con decine di migliaia di under 30 la clip dall’Assemblea del PD. Tutta la comunicazione che conta passa da lì, dalle piattaforme social. Sulle quali i messaggi hanno intrinsecamente – in forza di: “…me l’ha segnalato un amico di cui mi fido” – un’efficacia superiore a quella del web tradizionale dei siti e dei “portali”, nel quale prevale la rankizzazione del notiziario. Non è un sociologo della politica eppure l’analisi-snack di Fabio Rovazzi, 22 anni, è illuminante: “Su Internet io e quelli della mia età troviamo parecchie cose divertenti e curiose. Che ci portano via tutto il tempo a disposizione“. Il problema è che nella top five delle “cose divertenti e curiose” indicate dal rapper di “Andiamo a comandare” (104 milioni di visualizzazione su YouTube) e “Tutto molto interessante” (31 milioni in meno di un mese) si collocano le post-verità, cioè le notizie verosimili che sembrano così vere da essere prese per tali da milioni di utenti dei social.
Scrive Emily Bell, che dirige il Tow Center for Digital Journalism della Columbia University: “Facebook, che è il più influente e potente editore del mondo, durante la campagna elettorale americana ha dato enorme risonanza a notizie false a favore di Trump che sostanzialmente non esistono al di fuori di Facebook stessa” e probabilmente non ha mai sentito né letto chi non frequenta quotidianamente il social (compulsato ogni mattina, appena svegli, dalla metà dei ragazzi tra i 18 e i 24, secondo i dati globali di Social Skinny). Le pagine Facebook pro-Trump che spacciano fake news sono prodotte da fonti misteriose, dice Bell, “impossibili da tracciare come Occupy Democrats, The Angry Patriot, US Chronicle, Addicting Info, RightAlerts,Being Liberal, Opposing Views, Fed-Up Americans e American News. Tuttavia contano milioni di fan”. Pertanto “tocca a Mark Zuckerberg, che a differenza di maggior parte delle persone può fare del mondo un posto migliore, operare affinché Facebook svolga un attivo ruolo di editing dei contenuti che pubblica“. Personalmente, invece, sono convinto che qualsiasi forma di controllo che somigli alla censura non sia auspicabile.
Poiché gli economisti ci insegnano che la moneta buona scaccia quella cattiva, l’unica strada possibile per fermare questa deriva è un’informazione migliore e universalmente riconosciuta per la propria attendibilità. Un po’ come accadde tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso quando la degenerazione scandalistica della penny press, che pure aveva avuto il merito di popolarizzare l’informazione e di creare la nozione di “notizia”, provocò una risposta sociale, politica e industriale che rinnovò profondamente il giornalismo americano.
La qualità giornalistica costa però molto. Ci sono in giro, perché no, filantropi che sentano il dovere civico di finanziarla, come per secoli è accaduto a favore degli ospedali, degli ospizi, delle biblioteche? Lo sta già facendo uno degli uomini più ricchi del mondo, Jeff Bezos, fondatore di Amazon e ora proprietario del Washington Post. Una volta vinta la battaglia contro le fake news, qualche nuovo modello di business tornerà a fare del giornalismo e dell’editoria un affare redditizio. Intanto deve passare ‘a nuttata, che è tra le più buie della democrazia.
*Giornalista, Digital Strategy Advisor del Gruppo Espresso