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5 Novembre 2024 03:25

Perché questa non è solo una normale crisi di governo

In soli 18 mesi sono cambiate in profondità la politica, la cultura, le istituzioni. Si è spezzato un equilibrio già incrinato da tempo. E ora il Quirinale è chiamato a gestire un passaggio delicatissimo

di Marco Damilano*

Buone vacanze, ha augurato ai colleghi la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati, e l’auspicio è risuonato come la battuta finale di un copione avvilente: il suggello della progressiva trasformazione del Parlamento nel set degli Occhi del cuore, la fiction melodrammatica che provano a portare a termine i protagonisti della serie tv cult Boris. Attori narcisisti e inutili, fronti vanamente spaziose, incapacità di leggere e scrivere e fare di conto, come il povero senatore del Movimento 5 Stelle Alberto Airola che scivola sui numeri della Tav, lui che a suo tempo era già caduto su un congiuntivo («se ci trovaressimo»).

Mercoledì 7 agosto è andato in scena l’ultimo atto della legislatura. Caotico e violento. Agitato dalla volontà di Matteo Salvini, dopo oltre due mesi di esitazioni, di recidere il legame con il Movimento 5 Stelle. La Ruspa che distrugge il fragile edificio della maggioranza gialloverde è stata azionata con cinismo e ferocia. Fino a quando, per dichiarare il parere di governo sul voto, insieme al sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento Vincenzo Santangelo (M5S) è intervenuto a sorpresa il leghista Massimo Garavaglia e ha espresso l’indicazione del suo partito, “a favore della Tav e contro chi blocca il Paese“, cioè gli alleati del Movimento. È lì, in quel momento, che, al di là dei passaggi formali, il governo del cambiamento presieduto da Giuseppe Conte ha cessato di esistere come soggetto politico.

Se ci trovaressimo, diceva Airola, quando era un simpatico senatore dell’opposizione. Bene, ora ci si sono trovati. Fino al collo.

Matteo Salvini ha fatto in un solo anno quello che Matteo Renzi non era riuscito a compiere in cinque: uccidere il Movimento 5 Stelle, nella posizione di alleato, tagliare la testa a Luigi Di Maio, che dal voto del 2018 era uscito come un Golia elettorale con il 32 per cento e ora ha concluso l’avventura impaurito e nevrotizzato. In questo disastro i Cinque stelle non sono riusciti a salvare nulla dell’identità originale, ma non hanno neppure assunto l’unico nuovo ruolo possibile, una funzione di argine rispetto alla crescente aggressività del killer politico che si trovavano seduti accanto nei banchi di governo.

Dopo le elezioni europee da M5S sono diventati MSM, Movimento Sangue e altra nobile materia, secondo l’antica lezione del maestro socialista Rino Formica sulla franca materialità dell’azione politica, scoperta all’improvviso ancora una volta dal purissimo senatore Airola a Palazzo Madama, ma non sono stati conseguenti con questa nuova consapevolezza, che poi richiede pragmatismo, rapporto con la realtà, tutto quello che il Movimento ha perso.

La scena della fine in un’aula parlamentare del governo del Cambiamento andrà ricordata come altri momenti della storia repubblicana. Nel 1987 il capogruppo alla Camera della Dc Mino Martinazzoli invitò il suo partito ad astenersi su un governo monocolore composto solo da democristiani, votato invece dai socialisti che lo volevano tenere in piedi, e lo fece con queste parole: “Se la commedia già mediocre è diventata intollerabile e rischiosa, conviene calare il sipario. Per questo sono costretto a chiedere ai deputati della Democrazia cristiana di astenersi dal voto sulla fiducia al governo”.

Tra i deputati democristiani che quel giorno di più di trent’anni fa attraversarono quel passaggio stretto e difficile da spiegare c’era anche Sergio Mattarella, alla sua prima legislatura. Era la crisi di un governo, la fine di una legislatura, ma cominciava anche a incrinarsi un sistema politico durato decenni, quell’astuzia che serviva a replicare alla furbizia altrui era il segno di un tramonto che sarebbe arrivato a compimento cinque anni dopo, con le inchieste di Tangentopoli. Toccherà a Mattarella, al presidente della Repubblica, per prerogativa costituzionale, dichiarare conclusa o no la legislatura, dopo neppure diciotto mesi. Anche in questo caso non è soltanto la crisi di un governo. Perché un anno e mezzo dal voto del 2018 non è servito a realizzare le riforme necessarie per il Paese, ma in compenso è bastato per cambiare in profondità la cultura, le istituzioni, la politica.

Due giorni prima della resa dei conti sull’Alta velocità, si è consumata nella stessa aula del Senato una rottura istituzionale che mira a strappare l’Italia dalla tradizione liberaldemocratica e catapultarla verso altri sistemi, quando con un voto di fiducia è stato approvato senza troppi problemi il cosiddetto decreto sicurezza bis.

Un doppio strappo, un doppio sbrego, come diceva qualche era geologica fa il politologo leghista Gianfranco Miglio. Il primo è lo strappo con cui l’Italia viene portata contro la sua storia di paese di migranti e la sua geografia di luogo di frontiera. Con la punizione verso chi fa soccorso in mare, le indagini e le intercettazioni nei confronti delle Ong considerate in blocco potenziali complici degli scafisti, le multe da un milione di euro per il comandante di un’imbarcazione che non obbedisce al divieto di ingresso, transito, sosta, nel mare territoriale dello Stato italiano. Una norma anti-Carola Rackete, la comandante della Sea Watch, subito minacciata da Salvini contro l’Open Arms con 121 persone a bordo, ma anche contro le ragioni di umanità e il rispetto dei diritti umani che sono alla base della Costituzione repubblicana, come hanno detto, tra gli altri, gli uomini di Chiesa.

Il secondo sbrego è, sul piano istituzionale, l’articolo del decreto che attribuisce al ministro dell’Interno i pieni poteri. Tocca a lui, in qualità di Autorità nazionale di pubblica sicurezza, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento dei controlli sulla frontiera marittima e terrestre dello Stato, nonché nel rispetto degli obblighi internazionali, il “potere di limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale“, in concerto con il ministro della Difesa e delle Infrastrutture e Trasporti e informato il presidente del Consiglio. La responsabilità si accentra sul Viminale e si fotografa così l’egemonia del ministro Salvini sui suoi colleghi di governo e sul premier, in sordo conflitto con l’articolo 95 della Costituzione: “Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Salvo che, naturalmente, non sia Salvini a spostarsi a Palazzo Chigi: in quel caso, è certo, il nuovo ministro dell’Interno sarebbe di nuovo ridimensionato nei suoi poteri e competenze, essendo un suo sottoposto.

Sono i segni di un equilibrio che sta saltando. Qualcosa di più preoccupante di una semplice crisi di governo, come se ne sono viste tante. In un anno e mezzo è stato indebolito il Parlamento, già sfiancato da decenni di riforme mancate e di leggi elettorali finalizzate a ridurre il potere di scelta degli elettori sui parlamentari, provocando una perdita di ruolo e di autorevolezza dei rappresentanti del popolo. Il governo si è come dissolto, le sedi del potere si sono trasferite verso il Viminale o, addirittura, verso il Papeete Beach.

Palazzo dei Marescialli, sede del CSM

L’opposizione è in un angolo, per responsabilità sua, certo, ma anche perché nel nuovo sistema che si immagina non è ammessa la possibilità di progettare un’alternativa: chi lo fa va diffamato, delegittimato, infangato a mezzo social. In questa situazione gli apparati dello Stato, i servizi di sicurezza, le forze di polizia e di ordine pubblico, si mettono in proprio. La magistratura si è indebolita per il gravissimo scandalo delle nomine nel Csm e poi è finita sotto l’attacco del ministro Salvini che ha accusato i giudici non allineati con i desideri dell’esecutivo di essere anti-popolari, sgraditi al popolo. La stampa, a corto di credibilità e di fiducia per mancanze sue, è stata un bersaglio facile su cui trasferire pulsioni, risentimenti, frustrazioni. Lo abbiamo visto nel caso dell’aggressione del capo leghista contro il videomaker di Repubblica Valerio Lo Muzio che aveva osato filmarlo e contraddirlo. E anche noi dell’Espresso siamo finiti sotto tiro, oggetto di una grottesca inchiesta sull’inchiesta, a proposito di Russiagate. Qualcosa di simile a quanto avviene in altri paesi. I primi a chiederci quali fossero le nostre fonti, infatti, furono organi di stampa legati alla Russia.

Si disegna dunque in Italia un sistema simile a quello preannunciato da Vladimir Putin per l’intero Occidente. La democrazia, intesa come possibilità di votare per i governanti, è slegata, sganciata dal liberalismo, che è invece il potere di controllarli e di limitarli. Ancora una volta, come trent’anni fa, l’Italia è un paese laboratorio. Nel 1989, quando cadde il muro di Berlino, il presidente della Repubblica dell’epoca Francesco Cossiga osservò che in Germania c’era un muro di mattoni, in Italia un muro immateriale ma altrettanto solido. Era stata l’Italia, dopo la Germania, il paese europeo più segnato dalla guerra fredda e dagli accordi di Jalta del 1945. La caduta del muro il 9 novembre fu anticipata da una lunga transizione democratica in alcuni paesi dell’Est, lo abbiamo raccontato in queste settimane sull’Espresso nella serie di storie raccontate da testimoni, protagonisti, scrittori, giornalisti (a pagina 84 la puntata conclusiva: l’Unione sovietica di Wlodek Goldkorn). La Polonia e l’Ungheria, in particolare, anticiparono il cambiamento e oggi sono alla guida dell’ondata sovranista nell’Unione europea.

Se si prende in considerazione l’estrema debolezza della fiducia nei confronti delle istituzioni della democrazia parlamentare e delle élites politiche (ritenute corrotte e inefficienti), si vede emergere nella società una base per un potere forte che non sia soggetto a costrizioni da parte dei contropoteri dello Stato di diritto. Insieme al disincanto nei confronti della democrazia, il secondo impulso favorevole alla deriva illiberale o autoritaria è il nazionalismo. L’alter ego della sovranità popolare è la sovranità nazionale, che il potere forte deve proteggere sia dalle ingerenze della Ue sia dall’ondata migratoria“, scrive il politologo ceco Jacques Rupnik in “Senza il muro” (Donzelli) in cui analizza questa parabola. “Nel 1989 pensavamo che l’Europa fosse il nostro avvenire. Oggi pensiamo di essere noi l’avvenire dell’Europa”, ha rivendicato il premier ungherese Viktor Orbán, citato da Rupnik.

Per questo l’Italia, come nel 1989, è il paese dell’Europa occidentale simbolo del nuovo muro. Provò a dirlo a modo suo l’incauto Gianluca Savoini, nel preambolo politico che aprì la ormai famosa colazione dell’hotel Metropol a Mosca, il 18 ottobre 2018. Prima di parlare di affari, l’uomo di fiducia di Salvini si lasciò andare a una visione: la nuova Italia guidata dalla Lega costruirà una nuova Europa che sarà a fianco della nuova Russia. Il giorno prima Salvini, nei dodici minuti di intervento pubblico alla riunione di Confindustria Russia, prima di sparire nel nulla, disse che si sentiva più a suo agio a Mosca che in alcune capitali dell’Unione europea. Uno spettacolare capovolgimento di quanto aveva detto molti anni prima (era il 1976!) il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer, intervistato da Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera diretto da Piero Ottone: da comunista mi sento più sicuro a fare politica in un paese della Nato.

Il Russiagate è un’ipotesi di corruzione internazionale, su cui sta indagando la procura di Milano. Ma è anche un’idea di relazioni internazionali: la sicurezza nazionale di un paese trema quando un leader afferma di voler cambiare sistema di alleanze. Ancora di più: è la rappresentazione di un modello di società e di rapporto tra chi detiene il potere e i suoi controllori.

La sfida va portata a questa altezza. In Italia la democrazia è più forte dell’autocrazia, la lealtà costituzionale non è minoritaria, c’è la possibilità di costruire un’alternativa democratica che va rivitalizzata e organizzata. C’è un tessuto civile che non si arrende al nuovo potere o all’idea, per ora soltanto mimata, per fortuna, di una specie di guerra civile, dove gli avversari politici non esistono e si parla solo a quelli del tuo campo. Per questo il tentativo di Salvini di salire un altro gradino verso il potere deve coincidere con un risveglio democratico, ben visto anche in Europa. A vigilare su questo nuovo drammatico passaggio, non soltanto una banale crisi di governo, c’è il garante del Quirinale.

*direttore del settimanale L’ESPRESSO

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