L’ultimo stragista di Cosa nostra un anno fa si recava in una clinica di Palermo per essere sottoposto a una terapia per un grave tumore. Era il 16 gennaio dello scorso anno ed i carabinieri del Ros seguendo la serie di ricoveri e prestanome, avevano rintracciato Matteo Messina Denaro, potente boss mafioso, reso più vulnerabile dal suo tumore, interrompendo una trentennale latitanza dorata e protetta. Il 25 settembre è morto in ospedale, a L’Aquila. Due giorni dopo è stato tumulato nella natia Castelvetrano.
Calato il sipario su Messina Denaro condannato per le Stragi del 1992 e del 1993, oltre che per svariati omicidi, compreso quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, è partita la ricerca alla vasta rete di fiancheggiatori e al suo immenso tesoro, frutto di una formidabile ascesa negli affari, dalla grande distribuzione all’energia rinnovabile. La pressione dello Stato su Cosa nostra non si ferma ed è ancora viva, come spiegano gli inquirenti ed investigatori.
Matteo Messina Denaro
Un volto invisibile, un’esistenza messa in dubbio nonostante avesse avuto una figlia, oggi ventenne. Il boss stragista, condannato per Capaci, via D’Amelio e per gli eccidi del 1993 a Roma, Firenze e Milano, oltre che per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito. Di U Siccù, si trovarono lettere a Bernardo Provenzano, nel covo di Montagna dei Cavalli: “Qui a Marsala – scriveva – stanno arrestando pure le sedie“. Motivo per cui si diede alla latitanza più estrema, facendo il vuoto attorno a sè e interrompendo qualsiasi collegamento.
Intercettazioni e biglietti su di lui sono di anni e anni fa. Non scriveva personalmente ma qualcuno che teneva i contatti per lui doveva pur esserci. Operato in Spagna all’inizio degli anni Duemila, gli investigatori erano riusciti a ricostruire quale fosse la clinica iberica e a prendere il Dna, in loro possesso e oggi potrebbe essere utilizzato come mezzo per riscontrarne l’identità. Decine gli omicidi per cui è stato condannato, fra questi Vincenzo Milazzo e Antonella Bonomo, che era incinta. Per il suo arresto, negli anni, sono stati impegnati centinaia di uomini delle forze dell’ordine, di tutte le forze di polizia.
Ergastolo dal 41 bis
Un processo iniziato quando il pupillo di Totò Riina era ancora latitante e dopo la cattura quella sedia del supercarcere di L’Aquila, da detenuto al 41 bis, è rimasta sempre vuota. Secondo la procura di Caltanissetta “la decisione di uccidere i due giudici non fu un fatto isolato, ma ben piazzato al centro di una strategia stragista a cui Matteo Messina Denaro ha partecipato con consapevolezza dando un consenso, una disponibilità totale della propria persona, dei propri uomini, del proprio territorio, delle famiglie trapanesi al piano di Riina che ne fu così rafforzato e che consentì alla follia criminale del capo di Cosa nostra di continuare nel proprio intento: anzi, più che di consenso si potrebbe parlare di totale dedizione alla causa corleonese“.
Quando venne emessa la sentenza di primo grado, il 21 ottobre 2020, Messina Denaro era ancora latitante. Nel corso della sua requisitoria, al processo d’appello, il Pg Antonino Patti, lo scorso 27 ottobre, è tornato a chiedere – ottenendolo – l’ergastolo. “L’accusa che si muove a Matteo Messina Denaro – aveva detto il Pg – è di avere deliberato, insieme ad altri mafiosi regionali, che rivestivano uguale carica, le stragi. Quindi ci occupiamo di un mandante, non di un esecutore“.
Missione romana
Messina Denaro ha poi aggiunto che “la cosiddetta missione romana risale alla fine del febbraio del ’92, quando Totò Riina inviò nella capitale un ristretto gruppo di uomini d’onore guidato da Messina Denaro e Giuseppe Graviano: erano i componenti della cosiddetta Supercosa, la risposta del boss corleonese alla Superprocura, cioè la Direzione nazionale antimafia che era stata inventata da Falcone“. Il magistrato poi ucciso a Capaci era l’obiettivo della missione romana, insieme a Maurizio Costanzo.
“Riina a Roma aveva mandato le persone più importanti, come Giuseppe Graviano, che è un capomandamento, così come Matteo Messina Denaro; non è affatto vero, poi, che nel sestetto romano c’era gente che non sapeva mettere mano sugli esplosivi. Riina a Falcone lo avrebbe ucciso ovunque, anche sulla Luna. Lo dice lui stesso in un’intercettazione”. Nell’arco di pochi giorni Totò Riina cambiò idea e ordinò improvvisamente ai suoi di rientrare in Sicilia dove avevano trovato “cose più grosse”.
“Non sono mafioso e non mi pento di niente”
Nel verbale dell’interrogatorio del 13 febbraio dell’anno scorso, reso al procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia e all’aggiunto Paolo Guido, aveva mostrato la protervia di sempre. Lo hanno preso per la malattia, aveva affermato. Non diceva di essere “Superman“… Ma spavaldo e arrogante negava ad esempio di aver fatto parte di Cosa nostra, e al tempo stesso non si pentiva di nulla: “Sono uomo d’onore ma non mi sento mafioso”. Poi però ammetteva che “forse ci ho fatto affari e non sapevo che fosse Cosa nostra”.
Negava le accuse di avere commesso le stragi, di avere voluto offendere Giovanni Falcone quando imprecava durante le commemorazioni che lo avevano trattenuto in strada, incolonnato in attesa che il traffico si sbloccasse: “Il punto qual è? Che io ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione. Allora, se invece del giudice fosse stato Garibaldi, la mia reazione sempre quella sarebbe stata, perché non si possono permettere di bloccare un’autostrada per decine di chilometri: cosi vi fate odiare”.
Il concorso esterno “reato farlocco”
Un capo sui generis, Messina Denaro: preoccupato di difendere i fiancheggiatori, facendo una sorta di filosofia giuridica sulla natura del concorso esterno (“reato farlocco”) e quasi preconizzando il dibattito politico-giudiziario di queste settimane. Poi è chiaro nella sua perfidia mafiosa: “Se voi dovete arrestare tutte le persone che hanno avuto a che fare con me a Campobello di Mazara (Trapani, ndr), penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta”.
E ancora: “Mi sono creato un’altra identità: Francesco. Giocavo a poker, mangiavo al ristorante, andavo a giocare“. Poi nega che tutti sapessero chi era lui, ipotesi da dimostrare per molti ma non per tutti, nel paese che lo ha ospitato. Una vita che “non è stata sedentaria”, ma “molto avventurosa, movimentata”.
“Quante ingiustizie subite”
Filosofo, mafioso no, ma uomo d’onore sì, concorso esterno no e il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo non diceva di non averlo commesso ma di non avere ucciso il ragazzino, figlio del pentito Santino Di Matteo: “A me dovrebbero appioppare solo il sequestro, l’omicidio lo ha fatto commettere Brusca che è impazzito dopo avere saputo che lo avevano condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo. Che c’entro io? Quante ingiustizie devo subire?“.
Anche le stragi non gli appartengono: “Stragi e omicidi… non c’entro nella maniera più assoluta”, però i contatti con Bernardo Provenzano ci furono: “E lei perché scriveva a Bernardo Provenzano?“, gli chiedeva De Lucia. E il boss: “perché quando si fa un certo tipo di vita poi, arrivato ad un dato momento ci dobbiamo incontrare perché io latitante accusato di mafia lui latitante accusato di mafia dove si va?”. Omicidi no, però favori sì, concedeva. E poi ancora droga no, non aveva bisogno, il padre “era benestante, faceva il mercante d’arte“. Fine corsa per Diabolik, “U Siccu“, l’ultimo stragista, “mai pentito”.
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