di Marco Follini
Lo scandalo che in questi giorni si snoda lungo la tortuosa rotta tra Doha e Strasburgo capovolge due stereotipi in una volta sola. Uno è quello della sinistra intesa come primatista morale. L’altro è quello dell’Europa austera e rigorosa. Entrambi minacciano di avere conseguenze a lungo andare.
Del primo aspetto si è parlato in lungo e in largo. Ora, si tratta di responsabilità personali, strettamente personali, e dunque far carico di questa vicenda al gruppo dei socialisti e democratici europei è politicamente (oltre che penalmente) improprio. E tuttavia si avverte un certo stridore tra i comportamenti di alcuni, appena svelati, e tutte le prediche che in questi anni sono discese dai pulpiti della sinistra all’indirizzo dei propri avversari politici. (Molti dei quali, peraltro, se le meritavano tutte.)
Ma la nemesi funziona appunto così. E per tutte le volte che la sinistra ha scagliato le frecce della sua indignazione cercando di colpire i comportamenti non sempre adamantini dei propri avversari, altrettante volte quelle stesse frecce sono tornate indietro al modo di un boomerang. Così oggi la destra non deve neppure fare la fatica di esprimere a sua volta altrettanta indignazione. Anzi, essa sembra quasi pattinare sulle storiacce di questi giorni con una sorta di benevola e forse quasi divertita signorilità.
Ora, è evidente che la sinistra paga alcuni eccessi giustizialisti del suo passato. Quella pretesa di ergersi a campioni della pulizia al cospetto di avversari moralmente meno degni sembra infatti prestarsi magnificamente al proprio rovesciamento. E non appena sul banco degli imputati finiscono alcuni (solo alcuni, sia chiaro) dei suoi esponenti diventa quasi inevitabile imputare loro anche l’eccesso di zelo predicatorio e fustigatorio dei loro antenati di appena qualche stagione fa.
Così, oggi, forse i dirigenti della sinistra oltre a battersi il petto, doverosamente, per le mele marce trovate nei loro cesti, dovrebbero anche rivedere la retorica degli anni scorsi. E magari, senza assolvere nessuno dei colpevoli di quella stagione, chiedersi anche se tutta la lettura che è stata data a suo tempo di Tangentopoli non meriti una revisione che la renda meno unilaterale di quanto non sia stata fin qui. Compito che tradisce un minimo di imbarazzo, ma che a questo punto andrebbe svolto con onestà intellettuale almeno pari all’onestà materiale di cui si mena vanto.
Ma v’è un altro aspetto, più cupo e profondo, che queste vicende stanno portando a galla. Ed è lo stridente contrasto tra l’Europa finanziaria che predica austerità, spulcia nei conti degli stati membri, impone regole contabili fin troppo rigorose per i loro bilanci, si propone come guardiana del nostro collettivo decoro economico in nome delle generazioni che verranno, e il suo Parlamento che diventa così permeabile alle influenze corruttive che abbiamo appena visto all’opera.
Anche in questo caso, non si tratterà di capovolgere i valori morali, tutt’altro. La costruzione europea è fondata su di un certo rigore contabile che è l’altra faccia della medaglia delle diffidenze che corrono tra i suoi paesi e della difformità di alcuni suoi interessi. Dunque, quel rigore somiglia a un precetto costituzionale, che ci piaccia oppure no. Ma è altrettanto evidente che quel precetto sarà più difficile da celebrare al cospetto di quelle mazzette che hanno reso tragicamente evidente la permeabilità delle istituzioni alle influenze più disdicevoli degli stati più lontani dai nostri standard di etica pubblica.
Sono strade in salite, tutte e due. Quella che è chiamata a imboccare la sinistra, ripensando se stessa. E quella che dovrà percorrere un’Europa troppo severa con gli altri per essere indulgente con se stessa. Percorsi faticosi, tutti e due