di Angela Vitaliano
Uno degli “incontri” che temevo di più quando mi sono trasferita a New York era quello con l’IRS, il “terribile” fisco americano che fu l’unico in grado di mettere in ginocchio persino un “intoccabile” come Al Capone, incastrato grazie ad una storia di evasione fiscale. Dal 1955, la data di scadenza per la presentazione delle dichiarazione dei redditi è il 15 aprile. Arriva come le grandi ricorrenze: ti capita inevitabilmente di sentire amici che la domenica precedente ti dicono, “non posso uscire, oggi devo fare le tasse”, oppure di leggere status entusiasti di Facebook che recitano, magari a febbraio, “ho già presentato la mia dichiarazione dei redditi, sono felice”.
Gli americani, infatti, sanno bene che se è possibile non iscriversi nelle liste comunali per evitare di andare votare per le elezioni, ci sono due cose alle quali non è possibile sfuggire: il “jury duty” (quando sei chiamato per far parte della giuria di un processo) e, appunto, il “tax day”. E, se sei impossibilitato a farlo quel giorno, zio Sam ti concede una proroga fino al 15 ottobre per pagare senza nessuna multa. A distanza di qualche anno dal mio arrivo qui, devo dire che il sistema fiscale americano è un’altra di quelle testimonianze palesi, semplici e sotto gli occhi di tutti, della profonda differenza che esiste fra gli Usa e l’Italia.
Partiamo dal (solito) presupposto: in America ci si fida della tua onestà, fino a prova contraria. Se un giorno vieni “pizzicato” perché hai mentito, infatti, sono guai, e guai seri. Il principio del “rapporto di fiducia” fra governo e contribuente semplifica in una maniera incredibile la posizione di quest’ultimo, facendogli sentire meno (ma molto meno) il peso del pagamento delle tasse.
La prima volta che mi recai da un commercialista avevo con me la mia bella cartella con tutte le ricevute e appunti e note e varie ed eventuali. Scelsi, per supporto, H&RBlock, praticamente la catena dei commercialisti “fronte strada” più famosa del paese. A New York c’è un ufficio H&RBlock ogni angolo di strada, tipo Starbucks: entri e aspetti il tuo turno e poi ti siedi con un commercialista che – tipo ufficio postale – ti compila il modulo delle tasse. Alla fine tu paghi e il costo ti viene “automaticamente” dedotto dalle tasse dell’anno successivo, in quanto “spesa”.
La mia prima commercialista mi guardò, con tutte le mie carte, con fare affettuoso e mi disse “ho solo bisogno di sapere quanto hai guadagnato approssimativamente lo scorso anno”. Fatta rapidamente l’addizione, le comunicai la cifra e lei mi chiese “spese?” e io dissi “no”. Il totale che avrei dovuto pagare mi stese come se avessi ricevuto un cazzotto da Rocky Balboa. Lei mi guardò comprensiva e mi disse “ma davvero non hai spese che possiamo detrarre?”.
Detrarre, che bella parola. In Italia non faceva parte del mio vocabolario. Non appartenevo alla categoria di chi “può detrarre”. Timidamente iniziai la mia lista: il cellulare, i giornali, i taxi, la beneficenza, parte dell’affitto, l’abbonamento della metropolitana, i viaggi di lavoro. Dopo venti minuti era zio Sam che doveva dei soldi a me. Credo che quello fu il momento in cui il mio cuore cantò l’inno americano senza sbagliare nemmeno una parola per la prima volta. Negli anni le cose sono cambiate un po’: adesso pago io qualcosa al Governo Federale; quello statale, in genere, ancora mi è debitore (perché qui si pagano doppie tasse: Statali e Federali). Inoltre ho imparato: a compilare le richieste di proroga per il governo federale e quello statale da sola: compilo, preparo, accludo assegno per un importo uguale a quello pagato l’anno precedente e aspetto ottobre e ho anche una nuova commercialista.
La chiamo qualche giorno prima, le dico quanto ho guadagnato e quanto ho speso via mail. Il giorno dopo lei mi manda, via mail, due pagine da firmare: una delle tasse e una per autorizzarla ad addebitare il pagamento delle stesse direttamente sul mio conto in banca. Poi compilo un assegno e glielo spedisco, via posta normale, per il suo aiuto. Tre settimane dopo al massimo, lo Stato di New York mi accredita in conto il rimborso che mi spetta. Due volte, il fisco mi ha scritto, dopo dieci giorni dalla presentazione delle tasse perché fatti gli accertamenti, dovevo ancora 5 dollari. L’assegno – via posta – è partito in un batter d’occhio. Perché con zio Sam vale la pena non avere conti in sospeso, se ce li hai lui se ne accorge. Ci puoi scommettere.
*racconto tratto dal magazine Wired