L’homo dignus è la nuova manifestazione della personalità umana nel costituzionalismo dei diritti di cui scriveva Rodotà: l’eguale dignità di ciascuno supera l’astrazione del vecchio individualismo liberale e riscopre la centralità della concreta esperienza della persona umana a partire dal suo corpo e dai suoi bisogni. Una nuova morfologia è la chiave interpretativa con cui Stefano Rodotà ci guida per le strade più impervie: la corporeità fisica o elettronica è il centro di attrazione di vecchi e nuovi diritti così come il corpo è il luogo della differenza delle persone e dei loro bisogni, tutte e tutti meritevoli di riconoscimento e di garanzia.
Per chi ha fatto della lotta per i diritti la ragione del proprio impegno, Stefano Rodotà – scomparso il 23 giugno di un anno fa – è stato un maestro e un compagno di strada irrinunciabile, dalle battaglie per le libertà civili degli anni Settanta alle nuove frontiere dell’identità digitale e del post-umano, senza dimenticare l’impegno garantista che lo vide in prima fila nella promozione di “Antigone”, il bimestrale di critica dell’emergenza pubblicato da il manifesto alla metà degli anni Ottanta.
“Il diritto di avere diritti” si apre con una riflessione sul “mondo nuovo dei diritti”. Rodotà, sulla scia di Bobbio, aveva interpretato la fine del Novecento come una finestra di possibilità per una età dei diritti. Già nel suo “Repertorio di fine secolo” (Laterza, 1992) si trovano i temi dei vent’anni successivi: un’agenda per una sinistra profondamente rinnovata, dalle nuove frontiere della democrazia al pluralismo culturale, una inedita concezione della privacy nell’era digitale e le problematiche del bio-diritto. Nel frattempo ulteriori sviluppi maturano in vecchi filoni di ricerca. Come quello sul «terribile, forse non necessario» diritto di proprietà (definizione di Beccaria), cui aveva dedicato una raccolta fondamentale di studi (“Il terribile diritto”, appunto) all’inizio del suo percorso di ricerca. Ricerca che gli consentirà, un quarto di secolo dopo, di elaborare una proposta di riconoscimento giuridico dei “beni comuni”. O, infine, l’approdo al “Diritto d’amore” (Laterza, 2015) di una antica critica dell’uso coattivo del diritto nelle relazioni familiari, critica che in Rodotà si rovescia in opportunità di riconoscimento della libera scelta di convivenza di coppie dello stesso sesso o di sesso opposto.
Ecco, se volessimo definire il lascito di Rodotà per il proseguimento delle battaglie di libertà a cui ci ha introdotto o in cui ci ha accompagnato, innanzitutto si dovrebbe dire questo: se il diritto è un’arma a doppio taglio, ci sarà pure un verso da cui prenderla per ottenere più garanzie e più libertà. Dunque, la critica del diritto esistente, se non vuole essere messianica attesa di una rivoluzione improbabile e (spesso) liberticida, deve essere il fondamento di un diritto possibile, già oggi ricavabile con una lettura rigorosa dei principi e dei valori cui si ispirano la carta costituzionale e il diritto internazionale. Si pensi, per esempio, a quella lettura rigorosa dell’articolo 32 della Costituzione, che ha consentito di dar pace a Eluana Englaro e ai suoi familiari.
È ancora la citazione di Hannah Arendt a ricordarcelo: la prospettiva dell’homo dignus è l’umanità dei diritti e dunque il loro universalismo, senza barriere né confini. Non a caso, dai suoi primi studi sulla proprietà fino a uno dei suoi ultimi libri, parola chiave nella lingua di Rodotà è la solidarietà: quel che ci tiene insieme, ognuno con la propria differenza, ognuno con la propria dignità. E lo spazio della umanità dei diritti non può essere rinchiuso nelle piccole patrie, non solo per i conflitti identitari che esse inevitabilmente generano tra chi vi appartiene e chi no, ma anche per la realistica considerazione che nel mondo globale, diritti e solidarietà si muovono in una dimensione globale. Non a caso, Rodotà resterà fino alla fine legato alla sua idea di un’Europa dei diritti, quella della Carta che contribuì a scrivere: un’Europa come attore istituzionale sovranazionale all’altezza della sfida dei diritti umani nell’epoca della globalizzazione e dei grandi poteri privati su scala mondiale.
Infine c’è l’agenda: i beni comuni, il diritto al cibo e alla conoscenza; il diritto all’esistenza, anche attraverso il riconoscimento universale di un diritto al reddito; l’autodeterminazione nelle scelte procreative e in quelle sulla propria vita; la tutela della riservatezza e della identità digitale e l’uso della rete per il rafforzamento della partecipazione democratica alle scelte di convivenza. Ciascuna di esse, ovviamente, aprirebbe uno spazio infinito di riflessioni e di iniziative, ben oltre le caricature che ne vengono date in alcune versioni politiche correnti. E ciascuna di esse, d’altra parte, consente di trascrivere ogni capitolo dell’elaborazione teorica di un intellettuale così curioso e innovativo, in uno specifico passaggio della storia italiana dell’ultimo mezzo secolo. Si pensi a un testo (del 1974!) dal titolo “Elaborazione elettronica e controllo sociale” (era l’epoca in cui i computer si chiamavano processori o calcolatori) che dice bene quale fosse la capacità di analisi di Rodotà delle trasformazioni in atto, fin quasi alla preveggenza.
Così, ogni tappa della sua elaborazione coincide, quando non anticipa, la sequenza delle mobilitazioni della società italiana intorno a cruciali battaglie di libertà. Rodotà, insieme ai radicali e a una parte della sinistra ancora riottosa, è lì, a battersi per il divorzio, l’interruzione volontaria di gravidanza, le garanzie nel processo e nell’esecuzione penale (ovvero quel garantismo che deve a lui e a Luigi Ferrajoli le poche espressioni di limpidezza politica e intellettuale conosciute in Italia), fino alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e alla Dichiarazione dei diritti in Internet. E si pensi a una questione tanto circoscritta e altrettanto ignorata quanto simbolicamente dirompente come il riconoscimento anagrafico della condizione transgender. Insomma, il pensiero di questo studioso così intellettualmente irrequieto ha contribuito più di tante manifestazioni collettive e di tante parole parlamentari a fare dell’Italia un paese più civile.
*opinione tratta dal settimanale L’ ESPRESSO