di Marco Follini
A questo punto suona inutilmente malinconico l’appello a cercare di fare insieme, a due mani, le promesse riforme istituzionali. Da una parte infatti si arruolano cantanti, sportivi e attori per dare una coloritura pop al premierato annunciato, insofferenti ormai di ogni invito alla prudenza. Dall’altra si minaccia di farvi opposizione addirittura ‘usando i nostri corpi’ e già prenotando una piazza di protesta -il 2 giugno, festa della Repubblica, peraltro. Ce n’è quanto basta per mettere in calendario un confronto parlamentare duro e divisivo e di lì in poi un referendum che si annuncia non proprio come la battaglia di Armageddon ma quasi.
Si dirà che neppure le riforme sono un pranzo di gala, e che perfino ai tempi della mitica Assemblea Costituente ci fu molto da discutere e perfino qualcosa su cui litigare. Ma nel caso delle nuove regole su cui ci si sta accapigliando fin dall’inizio della legislatura sembra sia mancata una sia pur minima volontà di cercare un punto di contatto. Da una parte, quella della Meloni, perché si scommette sul fatto che nel paese soffi un vento propizio alla personificazione del comando politico (il premierato, appunto). Dall’altra, quella del Pd, perché si scommette all’opposto che nel paese soffi un vento propizio alla protesta e alla diffidenza verso l’uomo, o la donna, soli al comando. Due venti che soffiano, effettivamente, tutti e due, e a quanto pare con pari forza. Tant’è che i sondaggi, per quel che valgono, già profetizzano un serrato testa a testa nel referendum che potrebbe essere chiamato infine a dirimere la controversia. Finendo per diventare un incentivo in più a dividere il campo.
Così ora verrebbe spontaneo ripiegare le bandiere della pace e predisporsi a uno scontro già annunciato con ostinazione degna di miglior causa da una parte e dall’altra. Salvo il fatto che a lasciar andare le cose verso questo sbocco è molto probabile che all’indomani ci si troverà ad aver compiuto un altro giro sulla giostra della delegittimazione della politica. E anche chi avrà la ventura di vincere nel referendum finale è assai probabile che non ricaverà da questa affermazione la solidità del proprio insediamento politico. Come talvolta succede, infatti, la fragilità è l’esito delle prove di forza un po’ maldestre.
A questa deriva, s’è già detto, hanno concorso in tanti. Ma non tutti nella stessa misura. Governo e maggioranza, infatti, avrebbero dovuto dar prova di maggiore prudenza e di maggiore disponibilità. Aver vinto le elezioni due anni fa avrebbe dovuto spingere Meloni a un di più di mediazione. Cosa di cui, almeno finora, non s’è vista traccia. Inoltre aver deciso di tenere per ultima la fondamentale questione della legge elettorale ha finito per alimentare ancora di più il sospetto che si stesse preparando una vera e propria forzatura ai danni del resto del mondo. E’ evidente che proprio il rafforzamento dei poteri del primo ministro richiederebbe un altrettanto forte consolidamento del ruolo rappresentativo del Parlamento. Se invece si continua allegramente a portare i fedelissimi alla Camera e al Senato, facendoli contare poco e niente, è tutto l’equilibrio dei poteri che va a farsi benedire.
Per come è configurata attualmente la riforma rischia di sfociare in un premier pressoché minoritario, eletto di stretta misura (la soglia non è ancora stata messa nero su bianco) e contornato da un Parlamento ridotto al coro muto degli yes men. Si dirà che c’è ancora tempo per rimediare, e che molte cose potranno magari essere corrette. Ma questo richiederebbe appunto una maggiore (e reciproca) disponibilità a muoversi dalle proprie trincee. Cosa di cui neppure gli osservatori più inclini all’ottimismo hanno finora visto traccia.
Così, l’intento di rafforzare il potere politico sortirà il paradossale effetto di rendere ancora più fragile la nostra impalcatura istituzionale. E l’uomo forte di domani scoprirà inevitabilmente che la debolezza del suo stesso contesto prima o poi gli renderà le cose ancora più difficili.