di Marco Follini
Le riforme istituzionali solitamente logorano chi si prova a farle. Andò così alle bicamerali che dovevano segnare il passaggio -addirittura- da una Repubblica all’altra. Poi a Berlusconi, Bossi e alla loro devolution. Poi ancora a Renzi e al suo sindaco d’Italia. In compenso la frenesia di cambiare ha prodotto più di qualche guasto. Il titolo quinto, che ha scardinato a suo tempo il rapporto tra Stato e regioni. La legge elettorale, rimaneggiata più volte nel segno della comodità dei leader di partito. La riduzione del numero dei parlamentari che ha finito per accentuare la crisi del sistema rappresentativo.
Insomma, la galleria degli errori (e di qualche orrore) che abbiamo attraversato in questi anni dovrebbe suggerire di andarci piano con i propositi di riordino istituzionale. Tanto più se quei propositi vengono espressi dalla tolda di comando di Palazzo Chigi. Il governo infatti gode sempre di un certo vantaggio. E questo governo, in particolare, può contare su di una larga maggioranza parlamentare, un diffuso consenso popolare e una ampia disponibilità di tempo. Tutte condizioni favorevoli, che dovrebbero appunto suggerire una certa cautela, a tutela innanzitutto di se stessi.
Suggerimento che verrà rispedito al mittente, inesorabilmente. Se del caso, anche con motivazioni nobili e generose. Ogni governo che s’è succeduto si è infatti proposto di cambiare regole, o almeno ha fatto finta di volerlo fare. E i governi più forti (Berlusconi, Renzi, ora Meloni) sono stati quelli che hanno sacrificato più incenso sull’altare delle riforme. Come a voler consolidare la loro presa sulle istituzioni sigillandola con le parole d’ordine più solenni e impegnative.
Ora, non vorrei far troppo la parte del ‘passatista’ suggerendo di non farne nulla. Resta il fatto però che, come insegna la nostra storia costituzionale, i grandi disegni sono figli di grandi circostanze. E solo una vera e propria assemblea costituente si è dimostrata fin qui capace di redigere una carta condivisa e di trovare un equilibrio che è potuto durare anni e anni attraversando prove anche molto difficili. Parole al vento, si dirà. E infatti sono anni e anni che si cerca di percorrere un’altra strada. Ora facendo delle riforme la bandiera di una parte contro l’altra. E ora facendo finta che le bandiere di tutti possano miracolosamente allinearsi. Così, ogni governo si dota di un suo ‘ministro per le riforme’ a cui affida il compito di promuovere una nuova scrittura. Si cominciò con Mino Martinazzoli, ai tempi di Cossiga. E si è arrivati a Maria Elisabetta Alberti Casellati ai nostri giorni. Una lunga successione di tentativi quasi sempre andati a vuoto. Che non suonano propriamente augurali in vista del cantiere che s’è appena aperto.
Il fatto è che si dovrebbe piuttosto recuperare l’antica saggezza di Calamandrei che ai suoi tempi ammoniva come il governo dovesse essere assente non appena si parlava di istituzioni. Saggezza che a turno hanno disatteso un po’ tutti, seppure con le migliori intenzioni.
In questo caso c’è una difficoltà in più da mettere nel conto. Ed è che il governo Meloni si è proposto un obiettivo fin troppo ambizioso, confidando di riuscire ad aprire la strada verso l’elezione popolare o del capo dello Stato o del governo. Obiettivo che non ha nulla di sovversivo, sia chiaro. Ma che incrocia la contrarietà più netta degli altri partiti -fatta salva la disponibilità di Italia viva per l’elezione del “sindaco” d’Italia.
Chi scrive non ha nessun favore per queste innovazioni, che possono sbilanciare ancora più il faticoso e periclitante equilibrio del nostro sistema politico. Ma è evidente che se davvero si punta a riforme di così ampia portata tanto più servirebbe che maggioranza e opposizione si dessero convegno in un luogo sottratto a quello spirito di parte che s’è visto aleggiare fin dalle prime battute di questi giorni. Diversamente ci si finirà per trovare al bivio tra una grande riforma e un grande conflitto. Ed è facile prevedere che sarà il conflitto a avere la meglio.