di Mario Calabresi*
Il discorso del nuovo primo ministro Giuseppe Conte è il perfetto punto di arrivo di un percorso di rottura con il pensiero e le prassi politiche esistenti e segna un radicale cambio di stagione. Non sappiamo se lo sarà anche nella sostanza, ma certo lo è stato nelle forme.
Prende accuse e critiche e le trasforma in una fiera rivendicazione di diversità e novità: nessun problema a essere definiti populisti e antisistema, anzi questo è un merito “se indica l’attitudine ad ascoltare i bisogni della gente”; nessun imbarazzo nel non avere alcuna esperienza politica, perché ciò significa essere “un cittadino” come gli altri e quindi il rappresentante massimo dell’uomo comune; nessun problema a essere l’esecutore di un contratto scritto da altri “perché il progetto supera le persone”.
Così Conte ci illustra un libro dei desideri e dei bisogni che si basa sul famoso contratto, ma in cui mancano completamente tre punti fondamentali: tempi di realizzazione, coperture economiche dei provvedimenti e priorità. Come si possono abbassare le tasse e insieme aumentare la spesa sanitaria, sociale, pensionistica e quella per la sicurezza? Non è dato saperlo e questa obiezione non nasce da una nostra sfiducia pregiudiziale ma dalla logica. Perché ognuno di noi si augurerebbe più investimenti negli ospedali, pensioni più alte, più volanti nelle strade, più fondi per la ricerca e per l’occupazione giovanile, meno tasse. ( Non è un caso che la parola “più” sia tra le maggiormente citate nel discorso). Certo è possibile cucire insieme due programmi tanto diversi — con le vecchie categorie avremmo definito quello della Lega di destra e quello dei Cinque Stelle progressista — quando è necessario dare vita a un contratto per arrivare al governo, ma come metterli in pratica difficile dirlo.
Però gli slogan di Conte fanno breccia, basta con le misure di austerità, una giustizia più rapida e efficiente, un’attenzione particolare alle disabilità, un nuovo patto sociale fondato sulla solidarietà, la centralità della difesa dell’ambiente, la preminenza della politica sulla finanza, la lotta alle disuguaglianze, l’attenzione al dramma della disoccupazione giovanile e alla migrazione dei nostri ragazzi migliori. Bandiere che può fare sue perché da troppo tempo la sinistra le aveva colpevolmente abbandonate, in omaggio al senso di responsabilità per la tenuta dei conti pubblici e — come sottolinea — “per incapacità di leggere la realtà“.
Non ci sono più i diritti civili, come non esistono la scuola e la cultura, ma anche questa è una cesura con le detestate élite intellettuali. E allora, in questa direzione nuova i riferimenti diventano la Russia di Putin e l’Ungheria di Orbán, non importa se siano esempi di uno scadimento della democrazia e dei diritti umani, importa che parlino il linguaggio della sicurezza tanto caro a Matteo Salvini. La nuova Italia immaginata avrà i suoi muri, siano quelli delle nuove carceri o dei centri dove tenere i migranti che sperano di ottenere lo status di rifugiati, e guarda a una nuova Europa che sia fortezza per contenere chi già ci abita.
Pazienza se il continente invecchia e non è capace di tenere il passo dell’innovazione e della crescita, pazienza se quasi la metà delle prime 500 grandi aziende americane sono state fondate da immigrati di prima o seconda generazione, la priorità oggi è difendersi dalla diversità che spaventa, costi quel che costi.
L’avvocato difensore degli italiani, il portavoce del contratto, ha la spensierata sicurezza dell’uomo nuovo, sa che deve convivere con i due veri premier di questa maggioranza e sa che il suo di contratto prevede la capacità di stare un passo indietro. A dettare le regole sono i patti tra i due partiti. Tanto che le sue linee guida le esplicita con chiarezza: ascolto, esecuzione e controllo.
Ma sa anche che “il vento nuovo” soffia nella sua vela, sa che non esiste opposizione in grado di impensierire e sa che può godere della benevolenza che si accorda a chi è alla sua prima volta. I bisogni dei cittadini però, se non saranno soddisfatti, prima del previsto torneranno a bussare a Palazzo Chigi e non sarà sufficiente gettare le responsabilità sugli inquilini precedenti per salvare la faccia. Bisognerà fare i conti con la realtà e forse allora i nuovi governanti capiranno che quelli che sono venuti prima non erano tutti in mala fede o insensibili.
Capiranno che le ricette semplicie immediate non esistono e non sono mai esistite.
*Direttore del quotidiano LAREPUBBLICA