di Aldo Grasso
“Live – Non è la d’Urso” è una miniera d’oro per Publitalia che ne ha chiesto il prolungamento, questa la notizia. È lecito domandarsi, senza falsi moralismi, a che prezzo la d’Urso è diventata una miniera d’oro? La D’Urso (una per tutte e per tutti) è molto brava a fare ascolti. Li ha fatti con la storia incredibile di Pamela Prati, una storia di bugiardi, di personaggi inventati, dell’inesistente Mark Caltagirone smascherato subito da Roberto D’Agostino.
Perché questa vicenda, pur sapendo che era tutta una montatura, è andata avanti per così tanto tempo e ancora continua? Perché fa ascolti e gli ascolti sono la sola ragione di vita di una tv commerciale. Ma una tv, per quanto commerciale (si tratta pur sempre di Canale 5, con un passato non indifferente), gioca sul simbolico e sull’immaginario: può rischiosamente alimentarsi solo di ciarpame (stiamo parlando anche di debiti di gioco, di coinvolgimento di minori, di una valanga di menzogne), di uno spericolato caso di catfishing, di mondi farlocchi che da internet si trasferiscono sulla tv generalista, di resa morale?
In giro ci sono bravi presentatori, ma se di fronte all’obiettivo di ottenere facili ascolti agisci al di fuori di ogni etica, di ogni responsabilità, allora hai gioco facile e diventi una miniera d’oro (qualche analogia con «La Bestia» di Salvini?). Etica è parola troppo importante per questo caso? Forse sì, ma se osserviamo il contesto in cui questo caso è scoppiato allora ci accorgiamo dell’insorgere di una cultura utilitaristica che irride ogni ostacolo, ogni barriera valoriale, ogni decenza: per raggiungere uno scopo, la scappatoia diventa lecita e soprattutto si diffonde un senso di impunità grazie al quale la regola (anche solo di buon gusto) è un ostacolo da aggirare. E siamo invasi dal mondo dei social dove spesso la finzione è ben più credibile della realtà.
Il sottobosco diventa bosco, il ritegno sfrontatezza. Ci aspetta un domani dursocentrico.