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22 Dicembre 2024 16:59

Sequestro preventivo del quotidiano on line: il “no” delle Sezioni Unite

In presenza dei presupposti legittimanti, è consentito il sequestro preventivo di un sito web o di una pagina telematica, anche imponendo al fornitore dei servizi di renderli inaccessibili. La testata giornalistica telematica – assimilabile a quella tradizionale – rientra nel concetto di “stampa”: il giornale online, così come quello cartaceo, non può essere oggetto di sequestro preventivo tranne che nei casi previsti dalla legge: tra essi non figura l’ipotesi del reato di diffamazione a mezzo stampa.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

 

Presidente: Santacroce Giorgio

Relatore: Milo Nicola

Ha pronunciato la seguente :

Sentenza n. 31022 dep. il 17 luglio 2015

sui ricorsi proposti da:

  1. Fxxxx Luca Giovanni, nato a Milano il xx/xx/xxxx
  2. Sxxxxx Alessandro, nato a Como il xx/xx/xxxx

avverso l’ordinanza del 31/03/2014 del Tribunale di Monza visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal componente Nicola Milo;

CdG giudice_cassazione

RITENUTO IN FATTO

  1. Il G.i.p. del Tribunale di Monza, nell’ambito del procedimento penale a carico dei giornalisti Alessandro Sxxxxx e Luca Giovanni Fxxxx, indagati in relazione ai reati – come rispettivamente ascritti – di cui agli artt. 57, 595 cod. pen. e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, in danno del magistrato Antonio Bevere, disponeva, con decreto del 7 marzo 2014, il sequestro preventivo mediante “oscuramento” – materialmente eseguito il successivo giorno 13 – della pagina telematica del quotidiano “Il Giornale.it“, recante l’articolo «toh, giudice cassazione amico toga diffamata». Il G.i.p. riteneva tale articolo diffamatorio, in quanto insinuava che il predetto magistrato, in servizio presso la Quinta Sezione penale della Corte di cassazione, avrebbe violato il dovere di astensione nel procedimento penale che vedeva come imputato sempre il Sxxxxx per diffamazione in danno di altro magistrato, Giuseppe Cocilovo, supposto amico di lunga data del Bevere, procedimento quest’ultimo definito con sentenza 26 settembre 2012 emessa da un Collegio giudicante del quale faceva parte appunto il Bevere, peraltro estensore del provvedimento.
  2. A seguito di richiesta di riesame, il Tribunale di Monza, con ordinanza del 31 marzo 2014, decidendo ex artt. 322 e 324 cod. proc. pen., confermava il decreto di sequestro preventivo eseguito mediante “oscuramento” della pagina telematica incriminata.

Il Giudice del riesame, dopo avere, in via preliminare, risolto positivamente la sollevata questione della competenza per territorio, facendo leva sulla regola suppletiva di cui all’art. 9, comma 3, cod. proc. pen. (prima iscrizione della notizia di reato), riteneva sussistenti sia il fumus commissi delicti, insito nella dettagliata ed eloquente contestazione in fatto elevata dal p.m. sulla base delle univoche insinuazioni diffamatorie contenute nell’articolo incriminato, sia il periculum in mora, desumibile dalla libera disponibilità in rete della corrispondente pagina telematica, che avrebbe potuto «concretamente aggravare le conseguenze dannose del reato».

  1. Avverso la pronuncia di riesame hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i loro difensori, gli indagati, sviluppando due articolati e analitici motivi.

3.1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto neii’applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 3 e 21 Cost., nonché inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, in relazione agli artt. 125, comma 3, cod. proc. pen. e 111, sesto comma, Cost., sotto il profilo della mancanza di motivazione.

Stigmatizzano l’omessa considerazione dei motivi di riesame, con i quali si era specificamente contestata la legittimità del provvedimento di sequestro, per lesione del diritto costituzionale di libera manifestazione del pensiero e della libertà di stampa.

Evidenziano al riguardo: l’illegittimità del sequestro preventivo, mediante oscuramento, della testata telematica, prevedendo la legge esclusivamente il sequestro probatorio della stampa, limitato a sole tre copie; la cautela reale adottata comportava una disparità di trattamento, con conseguente irragionevolezza della disciplina di riferimento, rispetto alle pubblicazioni tradizionali; la nozione di stampa, definita dalla legge 8 febbraio 1948 n. 47, doveva necessariamente comprendere anche le pubblicazioni telematiche, come agevolmente era desumibile dalla equiparazione che ne era stata fatta dalla legge 7 marzo 2001 n. 62 in tema di prodotti editoriali.

Aggiungono che non poteva essere condiviso l’arresto della giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 10594 del 05/11/2013, dep. 2014, Montanari) circa l’ammissibilità del sequestro preventivo di articoli giornalistici on line, misura che sarebbe legittimata dalla considerazione che gli spazi comunicativi sul web non godono della stessa protezione accordata alla stampa. Tale orientamento nonconsiderava che la testata telematica regolarmente registrata è «un giornale a tutti gli effetti»; il mezzo elettronico e la rete costituiscono soltanto una «modalità di diffusione aggiuntiva rispetto a quella tradizionale cartacea», con l’effetto che doveva privilegiarsi una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina sulla stampa.

3.2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunziano, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento agli artt. 125, comma 3, cod. proc. pen. e 111, sesto comma, Cost., sotto il profilo della motivazione meramente apparente in ordine ai presupposti legittimanti la cautela reale.

Più specificamente, contestano la ritenuta sussistenza, con formula tautologica ed astratta, del fumus commissi delicti e del periculum in mora, evidenziando:

1) di avere verificato la «dimestichezza tra Bevere e Cocilovo», indicando nominativamente la fonte della notizia;

2) di non avere inteso affermare che l’esito del processo di diffamazione in danno del dr. Cocilovo fosse stato condizionato dall’amicizia tra costui e il consigliere Bevere, componente del Collegio giudicante ed estensore della sentenza di legittimità;

3) la mancanza dei requisiti dell’attualità e della concretezza della misura cautelare adottata, a cagione del tempo di quasi due anni trascorso dalla pubblicazione dell’articolo (30/09/2012);

4) la possibilità di consultare l’articolo incriminato, pubblicato anche sulla edizione cartacea del quotidiano, nelle emeroteche e nelle raccolte di rassegna stampa.

  1. I ricorsi sono stati assegnati ratione materiae alla Quinta Sezione penale.

Tutti i componenti del Collegio, costituito per l’udienza del 24 settembre 2014 fissata per la trattazione dei ricorsi, hanno presentato dichiarazione di astensione per gravi ragioni di convenienza, ravvisate nel fatto che, presso quella stessa Sezione, prestava servizio il consigliere Antonio Bevere che, quale querelante e persona offesa nel procedimento principale, aveva sollecitato, tramite il proprio difensore, il sequestro di cui si discute.

Il Primo Presidente, con provvedimento del 10 luglio 2014, ha autorizzato l’astensione del Collegio e contestualmente, rilevato che le medesime gravi ragioni di convenienza sussistevano per tutti i magistrati della Quinta Sezione penale, ha assegnato il processo alla Prima Sezione penale.

  1. Quest’ultima Sezione, con ordinanza 3 ottobre 2014, depositata il successivo giorno 30, osserva che il sollecitato scrutinio di legittimità della pronuncia del Tribunale del riesame impone la soluzione preliminare di due questioni di diritto, strettamente connesse tra loro: a) la prima, di carattere generale, concerne la stessa possibilità giuridica di disporre il sequestro preventivo di risorse telematiche, posto che la cautela si risolverebbe non nella materiale apprensione della cosa pertinente al reato, bensì nell’imposizione all’indagato o all’imputato o a terzi di un facere, consistente nel compimento delle operazioni tecniche necessarie per “oscurare” e rendere, quindi, inaccessibile agli utenti, ove ne ricorrano i presupposti, un intero sito o una pagina web; b) una volta risolta positivamente tale prima questione, residua quella ulteriore dell’ammissibilità del sequestro preventivo della pagina web di una testata giornalistica telematica debitamente registrata.

In relazione al primo tema, la Sezione rimettente, dopo avere dato atto che la giurisprudenza di legittimità era pacificamente orientata, pur senza particolari approfondimenti, nel senso dell’ammissibilità del sequestro preventivo mediante oscuramento di interi siti Internet o di singole pagine web, manifesta perplessità sulla possibilità di imporre, a scopo preventivo, all’indagato, all’imputato o a terzi privati il compimento dì attività tecniche necessarie per impedire l’accesso al sito o alla pagina web, oggetto di sequestro, e ciò perché la normativa sulla caut reale, tipizzata e disciplinata dagli artt. 321 cod. proc. pen. e 104 disp. att. cod. proc. pen., implica l’adprehensio, in senso materiale o giuridico, della res con il connesso vincolo d’indisponibilità della stessa e non già l’imposizione esclusiva di un facere.

Aggiunge che il legislatore, con la norma di cui all’art. 254-bis cod. proc. pen., disciplina il sequestro probatorio di dati informatici presso fornitori di servizi informatici, telematici e di telecomunicazioni, ma analoga previsione non è rinvenibile in materia di sequestro preventivo.

Con riferimento al secondo tema, contesta l’orientamento interpretativo espresso da Sez. 5, n. 10594 del 05/11/2013, dep. 2014, Montanari, che aveva escluso la possibilità di applicare, in via estensiva o analogica, la normativa sulle guarentigie per la stampa ai giornali telematici.

Osserva che il principio costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero con ogni mezzo di diffusione deve indurre, invece, ad equiparare il giornale on line a quello tradizionale e a ravvisare, sul piano logico-giuridico, la eadem ratio ai fini dell’applicazione delle relative guarentigie, con l’effetto che deve ritenersi inibito, salvo le eccezioni espressamente previste, il sequestro preventivo del prodotto editoriale telematico, destinatario peraltro, al pari della stampa tradizionale, delle provvidenze di cui alla legge n. 62 del 2001.

Poiché entrambi i temi dibattuti potevano dare luogo a contrasto giurisprudenziale rispetto agli orientamenti già espressi in sede di legittimità, la Prima Sezione ha rimesso d’ufficio, ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen., i ricorsi alle Sezioni Unite.

  1. Il Primo Presidente, con decreto del 4 novembre 2014, ha assegnato i ricorsi alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza camerale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Le questioni di diritto delle quali sono investite le Sezioni Unite sono le seguenti:

– «se sia ammissibile il sequestro preventivo, anche parziale, di un sito web»;

– «se sia ammissibile, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, il sequestro preventivo della pagina web di una testata giornalistica telematica debitamente registrata».

  1. La prima questione, di carattere generale, concerne la possibilità giuridica di disporre, per contrastare reati commessi nella rete intemet, il sequestro preventivo delle risorse informatiche o telematiche d’interesse.

La tematica, pur non espressamente dedotta dai ricorrenti, deve comunque essere esaminata, in quanto strettamente connessa alla specifica questione che viene qui in rilievo e che presuppone – al di là degli ulteriori problemi ermeneutici coinvolti e di cui si dirà in seguito – la positiva soluzione della prima.

2.1. La Sezione rimettente manifesta perplessità al riguardo, evidenziando che in questo caso la misura cautelare, contrariamente a quanto tipizzato e disciplinato dagli artt. 321 cod. proc. pen. e 104 disp. att. cod. proc. pen., si concretizzerebbe non nella materiale apprensione della cosa pertinente al reato o nella indisponibilità giuridica della stessa, bensì nell’imposizione all’indagato, all’imputato ovvero a terzi di un facere, consistente nel compimento delle operazioni tecniche necessarie per oscurare e rendere, quindi, inaccessibile agli utenti la visione del sito o della pagina web incriminati. Ciò tradirebbe la natura reale della cautela, che si trasformerebbe in una inibitoria atipica con effetti obbligatori, il che violerebbe il principio di legalità processuale.

2.2. Non mancano, in verità, decisioni di questa Corte che, sia pure analizzando casi differenti (in materia di sequestro di documenti) da quello in esame, escludono la possibilità di perseguire, attraverso l’adozione del sequestro preventivo, la finalità di inibire l’esercizio di determinate attività.

Si è affermato, infatti, che il sequestro preventivo può avere ad oggetto solo il risultato di un’attività e non l’attività in sé, perché è estranea ad esso la funzione di inibizione di comportamenti, sicché è illegittimo, risolvendosi peraltro nell’indebita invasione della sfera di attribuzioni della giurisdizione civile, il sequestro di un fascicolo processuale relativo all’esecuzione immobiliare in corso nei confronti di un soggetto vittima di fatti estorsivi, finalizzato ad impedire che il reato sia portato ad ulteriori conseguenze (Sez. 2, n. 10437 del 09/03/2006, Sindona, Rv. 233813). Con il sequestro preventivo non è possibile imporre al destinatario un facere, atteso che tale misura cautelare reale mira esclusivamente al congelamento della situazione pericolosa (Sez. 3, n. 11275 del 17/01/2002, Palmieri, Rv. 221434) e non è destinata a svolgere una atipica funzione inibitoria di comportamenti rilevanti sul piano penale, essendo predisposti, a tal fine, istituti di natura diversa, quali l’arresto o il fermo (Sez. 6, n. 4016 del 14/12/1998, dep. 1999, Bottani, Rv. 212349).

2.3. Devesi, tuttavia, evidenziare che la giurisprudenza di legittimità, con orientamento costante, ha ritenuto (quanto meno implicitamente) legittimo il sequestro preventivo mediante “oscuramento” di un intero sito telematico o di una pagina web, imponendo al fornitore di connettività o al soggetto che detiene la risorsa elettronica di porre in essere le operazioni tecniche necessarie per rendere il sito o la pagina non consultabili all’esterno (Sez. 1, n. 32846 del 04/06/2014, Ceraso, non massimata; Sez. 5. n. 10594 del 05/11/2013, dep. 2014, Montanari, Rv. 259887; Sez. 5, n. 11895 del 30/10/2013, dep. 2014, Belviso, Rv. 258333; Sez. 5, n. 46504 del 19/09/2011, Bogetti, non massimata;

Sez. 5, n. 47081 del 18/01/2011, Groppo, Rv. 251208; Sez.5, n. 7155 del 10/01/2011, Barbacetto, Rv. 249510; Sez. 6, n. 30968 del 28/06/2007, Pantano, Rv. 237485; Sez. 3, n. 39354 del 27/09/2007, Bassora, Rv. 237819).

Difettano, però, in tali decisioni, a giustificazione della tesi sostenuta, che pur si ritiene corretta, il necessario grado di approfondimento del tema specifico e una completa ricostruzione del quadro normativo di riferimento.

S’impone, pertanto, un esame analitico delle ragioni che giustificano il sequestro preventivo di risorse informatiche o telematiche pertinenti al reato, quando la libera disponibilità delle stesse possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati.

  1. L’art. 321 cod. proc. pen. disciplina il sequestro preventivo, stabilendo testualmente, al comma 1, che «Quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati, a richiesta del pubblico ministero il giudice competente a pronunciarsi nel merito ne dispone il sequestro con decreto motivato. Prima dell’esercizio dell’azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari». Ai sensi del successivo comma 3-bis, nel corso delle indagini preliminari, di fronte a una situazione di urgenza, il sequestro è disposto dal pubblico ministero; prima dell’intervento di costui e nella stessa situazione di urgenza, al sequestro procedono ufficiali di polizia giudiziaria; in questi due casi, devono fare seguito la convalida e l’emissione del decreto di cui al comma 1 da parte del giudice. E’ previsto anche (comma 2) il sequestro preventivo della cosa pericolosa in sé, essendone consentita o imposta la confisca.

Analizzando i presupposti di questa figura di sequestro, appare evidente che essa sia caratterizzata da un immediato fine di prevenzione. Trattasi di sequestro designato come “impeditivo” e tendenzialmente orientato ad operare, pur non perdendo la sua connotazione “reale“, come inibitoria, in quanto caratterizzato – come si è precisato in dottrina – da finalità di difesa sociale perché «il vincolo diretto a rendere indisponibile la cosa è imposto per le generali esigenze di giustizia, quali sono quelle di tutela della collettività».

La scelta sistematica del legislatore di inserire l’istituto tra le misure cautelari di cui al Libro IV del codice di rito è espressione di un preciso disegno di inserire in una cornice unitaria i provvedimenti che colpiscono le persone e le cose.

Il sequestro preventivo (accanto a quello conservativo) è annoverato tra le cautele reali, designando così l’oggetto del sequestro e l’effetto reale ad esso sicuramente connaturato.

Si legge nella Relazione al Progetto preliminare del codice di rito del 1988 che tale cautela, in altri termini, «crea l’indisponibilità di cose o beni con una incisività analoga a quella che nasce dalla custodia cautelare e da altre forme di misure cautelari personali. Al fine di garantire l’esecuzione della sentenza che potrà essere pronunciata a conclusione del processo, ovvero quando occorre impedire che l’uso della cosa possa agevolare le conseguenze del reato od indurre a nuovi reati, si creano dei vincoli che, si potrebbe dire, dalla cosa passano alla persona, nel senso che il sequestro non mira semplicemente a trasferire nella disponibilità del giudice ciò che deve essere utilizzato a fini di prova, ma tende piuttosto ad inibire certe attività (la vendita o l’uso) che il destinatario della misura può realizzare mediante la cosa» (p. 79). Sottolinea ancora la Relazione che «fondamento dell’istituto in questione resta l’esigenza […] di tutela della collettività con riferimento al protrarsi dell’attività criminosa e dei suoi effetti» (p. 80).

Tali profili sono evidenziati anche dalla Corte costituzionale allorché precisa (sentenza n. 48 del 1994) che la cautela reale di cui si discute attiene a “cose” che presentano un tasso di pericolosità tale da giustificare l’imposizione del vincolo. La misura, pur raccordandosi ontologicamente a un reato, può prescindere totalmente da qualsiasi profilo di “colpevolezza“, proprio perché la funzione preventiva non si proietta necessariamente sull’autore del fatto criminoso, ma su beni che, postulando un vincolo di pertinenzialità col reato, vengono riguardati dall’ordinamento quali strumenti la cui libera disponibilità può costituire situazione di pericolo.

Il rapporto di pertinenzialità tra cosa e reato è l’indice imprescindibile della operatività oggettiva del sequestro preventivo.

La locuzione “cosa pertinente al reato” di cui all’art. 321 cod. proc. pen. Ha un significato più ampio di quella “corpo di reato” impiegata nell’art. 253 cod. proc. pen. e comprende non soltanto qualunque cosa sulla quale e a mezzo della quale il reato fu commesso o che ne costituisce il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche quelle legate indirettamente alla fattispecie criminosa.

Nella previsione dell’art. 321 cod. proc. pen., lo stesso concetto di “pertinenzialità” è diverso, nella sua portata, da quello presente nell’analoga previsione dell’art. 253 cod. proc. pen.

La pertinenza al reato di cui all’art. 253 cod. proc. pen., che fa riferimento alle «cose […] necessarie per l’accertamento dei fatti», circoscrive il potere dell’autorità giudiziaria al solo sequestro di quelle cose che hanno un legame probatorio con il fatto per cui si procede.

La nozione di pertinenza di cui all’art. 321 cod. proc. pen., invece, delimita il campo di operatività del sequestro preventivo alla sua finalità, con l’effetto che la misura, come si è osservato in dottrina, finisce con l’assumere una «connotazione di natura sostanziale», nel senso che il vincolo d’indisponibilità al quale la cosa è sottoposta scongiura il pericolo della perpetuatio criminis ovvero della commissione di altri reati.

Conclusivamente la finalità di prevenzione che la misura persegue è mediata dalla cosa, considerata nel rapporto con la persona che ne ha la disponibilità, il che legittima il sequestro nei casi in cui lo stretto legame tra la persona e il bene sia la causa del pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di reiterazione dell’attività criminosa.

  1. Ciò posto, deve rilevarsi che il caso sottoposto all’attenzione delle Sezioni Unite si connota per la particolarità dell’oggetto della coercizione reale.

Tale oggetto, almeno in apparenza, non si apprezza come una entità del mondo fisico, suscettibile di apprensione, possesso e custodia (id quod tangi potest), trattandosi di un prodotto del pensiero umano che circola liberamente nella rete telematica in forma dematerializzata.

Il sequestro preventivo di risorse telematiche o informatiche diffuse sul web implica un intervento sul prestatore di servizio (Internet Seni/ce Provider), perché impedisca l’accesso al sito o alla singola pagina ovvero disponga il blocco o la cancellazione del file incriminato; tanto comporta inevitabilmente l’inibitoria di una determinata attività.

4.1. Già nel vigore del codice di procedura penale del 1930, mancando una specifica disciplina idonea a fronteggiare condotte delittuose gravemente lesive di interessi non solo individuali ma anche collettivi, era stata avvertita l’esigenza di attivare strumenti con finalità preventive.

La giurisprudenza, forzando l’interpretazione dell’art. 337 cod. proc. pen. E andando al di là del suo apparente dominio, aveva ampliato il campo di operatività del sequestro penale, impiegato frequentemente, oltre che a scopo probatorio, in funzione preventiva; avvalendosi, inoltre, degli artt. 231 e 232 cod. proc. pen. in relazione all’art. 219 cod. proc. pen., aveva escogitato una gamma di provvedimenti atipici in funzione inibitoria, utilizzati per evitare che l’attività illecita arrecasse ulteriori pregiudizi.

4.2. Il codice di procedura penale vigente ha previsto e disciplinato l’istituto del sequestro preventivo, che, di fronte ad illeciti penali commessi nell’ambito dello spazio riservato ai nuovi modelli comunicativi e alle innovative modalità di fruizione dei beni immateriali, è destinato ad operare anche con effetti inibitori.

La misura cautelare, in questa nuova realtà, non può limitarsi a porre un vincolo d’indisponibilità su di una cosa, tenuto conto che tale vincolo è comunque implicato nell’agire contra legem della persona, alla quale, per garantire l’effettività della cautela, devono necessariamente essere inibite le corrispondenti attività pericolose realizzabili mediante la disponibilità del bene. E ciò a superamento del riferimento riduttivo e anacronistico alla sola cosa materiale, per dare il necessario risalto al prodotto intellettuale in essa incorporato, che costituisce l’oggetto primario del vincolo d’indisponibilità.

Devesi quindi stabilire se tutto ciò sia compatibile col principio di legalità processuale, considerato che il sequestro di cui all’art. 321 cod. proc. pen. Ha una evidente natura reale e comporta, pertanto, la materiale apprensione della cosa pertinente al reato. In altri termini, è necessario chiarire se il dato informatico in quanto tale abbia una sua fisicità, rientri nel concetto di “cosa” e possa essere oggetto di coercizione reale.

  1. Internet non è un luogo, né uno spazio, ma una metodologia di comunicazione ipertestuale che consente l’accesso a qualsiasi contenuto digitale posto su sistemi informatici connessi alla rete.

La dimensione fisica delle informazioni reperibili attraverso la rete telematica consiste nella struttura di ciascun file e si radica spazialmente nel computer, al cui interno il documento è materialmente memorizzato.

I documenti reperibili in rete non sono altro che files (registrazioni magnetiche o ottiche di bytes) registrati all’interno dei servers degli Internet Service Providers ovvero sui computers degli utenti, utilizzando un sia pure infinitesimale spazio fisico. Il dato informatico, quindi, è incorporato sempre in un supporto fisico, anche se la sua fruizione attraverso la rete fa perdere di vista la sua “fisicità“. Al supporto fisico di memorizzazione si fa specifico riferimento nel Codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82) nella parte in cui disciplina la conservazione sicura dei dati e ne garantisce, quindi, la protezione e l’immutabilità (artt. 1, 43, 44).

La visualizzazione dei suddetti documenti non avviene “da remoto”, ma nel computer di ciascun utente, attraverso il programma browser, che, una volta individuato il documento, lo preleva, lo copia e lo rende così visibile.

  1. Devesi, inoltre, sottolineare che, a seguito dell’entrata in vigore della legge 18 marzo 2008, n. 48, di ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa, fatta a Budapest il 23 novembre 2001, sulla criminalità informatica (cybercrime) e di adeguamento del nostro ordinamento agli impegni assunti con la medesima Convenzione, il dato informatico è esplicitamente equiparato al concetto di “cosa”, che, se pertinente al reato, può essere oggetto di sequestro.

La Convenzione, infatti, dopo avere definito all’art. 1 il concetto di “dato informatico”, disciplina nel successivo art. 19 «Perquisizione e sequestro di dati informatici immagazzinati», stabilendo che «Ogni Parte deve adottare le misure legislative e di altra natura che dovessero essere necessarie per consentire alle proprie autorità competenti di sequestrare o acquisire in modo simile i dati informatici per i quali si è proceduto all’accesso […]. Tali misure devono includere il potere di: a) sequestrare o acquisire in modo simile un sistema informatico o parte di esso o un supporto per la conservazione di dati informatici; b) fare e trattenere una copia di quei dati informatici; c) mantenere l’integrità dei relativi dati informatici immagazzinati; d) rendere inaccessibile o rimuovere quei dati dal sistema informatico analizzato». Al termine “sequestrare” è affiancata l’espressione “acquisire in modo simile”, indicativa, come si legge nella relazione esplicativa del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, degli altri modi con i quali i dati intangibili possono essere resi indisponibili (renderli cioè inaccessibili o rimuoverli dal sistema).

Le modifiche apportate, in esecuzione di tale Convenzione, dalla legge n. 48 del 2008 al codice penale e a quello di procedura penale confermano l’assimilazione del dato informatico alle “cose“.

Si pensi all’introduzione, tra i delitti contro il patrimonio, degli artt. 635-bis e 635-ter cod. pen., che prevedono il «Danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici», appartenenti rispettivamente a soggetti privati o a soggetti pubblici; degli artt. 635-quater e 635-quinquies cod. pen., che puniscono il «Danneggiamento di sistemi informatici o telematici» privati o di pubblica utilità.

La netta distinzione dei primi due reati dagli ultimi due conferma che il dato informatico di per sé, considerato quale “cosa”, può essere oggetto di danneggiamento separatamente dal danneggiamento del sistema informatico nel quale è inserito.

Anche le innovazioni introdotte nel codice di rito, con riferimento alle norme relative ai mezzi di ricerca della prova e all’attività a iniziativa della polizia giudiziaria, evidenziano chiaramente che il dato informatico è normativamente equiparato a un oggetto “fisico”.

La legge n. 48 del 2008 (cfr. artt. 8 e 9) ha rimodulato disposizioni già vigenti, come il sequestro di oggetti di corrispondenza «anche se inoltrati per via telematica» (art. 254, comma 1, cod. proc. pen.); ha introdotto nuove disposizioni, come il sequestro di dati informatici presso fornitori di servizi informatici, telematici e di telecomunicazioni (art. 254-bis cod. proc. pen.); ha sottoposto, inoltre, ad un’operazione di “chirurgia lessicale” numerose altre disposizioni processuali, ampliandone l’oggetto attraverso l’inserimento di espressioni che rimandano ad attività connesse a «dati, informazioni e programmi informatici»: il riferimento è alla materia di ispezioni e rilievi tecnici (art. 244, comma 2, cod. proc. pen.), all’esame di atti, documenti e corrispondenza presso banche (art. 248, comma 2, cod. proc. pen.), ai doveri di esibizione e consegna (art. 256, comma 1, cod. proc. pen.), agli obblighi e alle modalità di custodia (art. 259, comma 2, cod. proc. pen.), ai sigilli e ai vincoli delle cose sequestrate (art. 260, commi 1 e 2, cod. proc. pen.), all’acquisizione di plichi e corrispondenza ad iniziativa della polizia giudiziaria (art. 353, comma 3, cod. proc. pen.) e, infine, agli accertamenti urgenti e al sequestro ad opera sempre della polizia giudiziaria (art. 354, comma 2, cod. proc. pen.).

6.1. Al di là della discutibile scelta sul metodo emendativo seguito, deve ritenersi ormai per definitivamente acquisito che il dato informatico in sé, in quanto normativamente equiparato a una “cosa”, può essere oggetto di sequestro, da eseguirsi, avuto riguardo al caso concreto, secondo determinate modalità espressamente previste dal legislatore e nel rispetto del principio di proporzionalità.

6.2. E’ pur vero che le innovazioni che hanno interessato la normativa processuale richiamata incidono direttamente sul sequestro probatorio (o sul dovere di esibizione e consegna), quale mezzo di ricerca della prova, mentre nessun riferimento fanno al sequestro preventivo.

Rimane comunque il fatto che i due istituti, designati con lo stesso nome di genere, pur perseguendo scopi diversi – assolvendo il sequestro probatorio la funzione edoprocessuale di mezzo di ricerca della prova e assumendo quello preventivo natura cautelare, tanto da estendere eventualmente i suoi effetti anche al di là delle immediate esigenze processuali -, hanno una comune caratteristica, quella cioè di scongiurare una indiscriminata utilizzabilità della res che ne forma oggetto, sottraendola alla disponibilità materiale e/o giuridica del proprietario, possessore o detentore.

Ne consegue, pertanto, che le considerazioni più sopra esposte circa l’equiparazione normativa del dato informatico alla res devono essere estese al sequestro preventivo avente ad oggetto dati informatici, non essendo concepibile sul piano logico una differenziata valutazione al riguardo, posto che la stessa attiene al medesimo oggetto del vincolo d’indisponibilità.

6.3. A questo punto, però, devono individuarsi, nel rispetto del principio di legalità processuale, le concrete modalità esecutive della cautela reale che ha ad oggetto risorse telematiche o informatiche, non essendo rinvenibile nel codice di rito alcuna norma analoga a quella prevista per il sequestro probatorio (art. 254- bis cod. proc. pen.).

Nel contesto della realtà digitale della rete, devesi stabilire, in sostanza, se il sequestro preventivo debba essere limitato alla sola adprehensio in senso fisico della “cosa” o piuttosto debba concretizzarsi, tenuto conto della peculiare realtà nella quale va ad incidere, in una vera e propria inibitoria rivolta al fornitore di connettività, che deve impedire agli utenti l’accesso al sito o alla singola pagina web incriminati ovvero rimuovere il file che viene in rilievo, con l’effetto di arrestare l’attività criminosa in atto o scongiurare la commissione di ulteriori condotte illecite.

  1. Ritiene il Collegio che il sequestro preventivo di risorse telematiche o informatiche sia compatibile con la detta inibitoria, la sola in grado di assicurare “effettività” alla cautela.

Soccorre al riguardo, sul piano normativo, il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, che, in attuazione della Direttiva n. 2000/31/CE, ha regolamentato taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.

L’intera gamma dei servizi di rete è disciplinata nel citato decreto legislativo.

Questo si occupa, all’art. 14, dell’attività di semplice trasporto, vale a dire della diffusione in rete delle informazioni fornite da un destinatario del servizio (mere conduit); all’art. 15, dell’attività di memorizzazione automatica, intermedia e temporanea (caching) delle informazioni fornite dall’utente e trasmesse in rete al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari che ne fanno richiesta; all’art. 16, dell’attività di memorizzazione, con caratteri di tendenziale stabilità, delle informazioni (hosting).

L’ultimo comma delle tre norme richiamate, riproducendo pedissequamente il contenuto della Direttiva comunitaria (artt. 12, 13 e 14), prevede che l’autorità giudiziaria o quella amministrativa con funzioni di vigilanza può esigere, anche in via di urgenza, che il prestatore di un servizio della società dell’informazione (ossia ‘Internet Service Provider) «impedisca o ponga fine alle violazioni commesse».

Il successivo art. 17, comma 3, inoltre, contempla che l’autorità giudiziaria può richiedere al detto prestatore di inibire l’accesso al contenuto illecito del servizio offerto.

Come correttamente rilevato da Sez. 3, n. 49437 del 29/09/2009, Sunde Kolrnisoppi (decisione di ampio respiro in tema di copyright), la lettura congiunta e coordinata di tutte le citate disposizioni consente di affermare che quanto in esse previsto, imponendo, per effetto della richiesta dell’autorità giudiziaria, un obbligo di attivazione da parte del prestatore dei servizi telematici, delinea una vera e propria inibitoria.

Ed invero, il meccanismo processuale, attraverso il quale si consegue l’obiettivo di paralizzare la protrazione delle conseguenze dannose del reato o il rischio di reiterazione dell’attività criminosa, implica un duplice intervento: 1) il sequestro preventivo con cui s’impone al fornitore dei servizi telematici di bloccare l’accesso degli utenti alle risorse elettroniche incriminate; 2) l’intervento tecnico di tale fornitore, che deve rendere, operando in modo consequenziale, concretamente indisponibili tali risorse.

Gli artt. 14, 15, 16 e 17 del d.lgs. n. 70 del 2003 integrano, con riferimento alla specifica materia disciplinata, il contenuto dell’art. 321 cod. proc. pen. E consentono di superare qualunque riserva circa la possibilità di sottoporre a sequestro preventivo dati informatici che circolano in rete in forma dematerializzata. Tale misura cautelare, per conseguire lo scopo che le è proprio, deve implicare necessariamente l’inibitoria dell’attività criminosa in atto.

Se si considera che la Relazione al Progetto preliminare del codice di rito specifica, come si è più sopra detto, che il sequestro preventivo non mira soltanto a sottrarre la disponibilità della cosa pertinente al reato a chi la detiene, ma «tende piuttosto ad inibire certe attività […] che il destinatario della misura può realizzare mediante la cosa», è evidente che il vincolo d’indisponibilità imposto su una cosa pertinente al reato denuncia, di per sé, il carattere reale della misura. Tale carattere non viene meno per il solo fatto che vengono contestualmente precluse le attività che richiedono la disponibilità della cosa, aspetto quest’ultimo che non trasforma la cautela in una mera inibitoria di attività e non ne vanifica il carattere reale che la tipizza.

Conclusivamente, nell’ambito del mondo digitale, il sequestro preventivo, ove ne ricorrano i presupposti, investe direttamente la disponibilità delle risorse telematiche o informatiche d’interesse, equiparate normativamente a “cose”, e ridonda, solo come conseguenza, anche in inibizione di attività, per garantire concreta incisività alla misura. Questa, quindi, non tradisce la sua connotazione di cautela reale e non si pone comunque, anche in relazione al suo risvolto inibitorio, al di fuori della legalità, tenuto conto delle specifiche previsi i normative di cui al d.lgs. n. 70 del 2003.

Né va sottaciuto che la normativa comunitaria è costantemente orientata nel senso di riconoscere espressamente che l’oscuramento di interi siti web o di singole pagine telematiche con contenuti illeciti è un efficace strumento di contrasto alla criminalità informatica: non è superfluo richiamare l’art. 25 della Direttiva 2011/93/UE sulla pedopornografia, alla quale si è data attuazione nell’ordinamento interno con il d.lgs. 4 marzo 2014 n. 39.

  1. Alla luce delle argomentazioni sin qui sviluppate, deve enunciarsi il seguente principio di diritto:

– “Ove ricorrano i presupposti del fumus comnnissi delicti e del periculum in mora, è ammissibile, nel rispetto del principio di proporzionalità, il sequestro preventivo ex art. 321 cod. proc. pen. di un sito web o di una singola pagina telematica, anche imponendo al fornitore dei relativi servizi di attivarsi per rendere inaccessibile il sito o la specifica risorsa telematica incriminata“.

  1. Risolto positivamente tale problema di carattere generale, deve ora essere esaminata l’ulteriore questione dell’ammissibilità o meno del sequestro preventivo di una testata giornalistica on line regolarmente registrata o di una determinata pagina web di detta testata.

E’ questo il tema di specifico interesse per la soluzione del caso portato all’attenzione delle Sezioni Unite.

  1. La libertà di stampa è un principio cardine su cui si fonda lo Stato democratico.

L’art. 21 della Costituzione, dopo avere riconosciuto nel primo comma il diritto di libera manifestazione del pensiero con ogni mezzo di diffusione, riserva le previsioni dei commi successivi specificamente alla stampa.

L’importanza preminente a questa riservata dal Costituente è conseguenza di un percorso storico e normativo, che è opportuno, sia pure per sintesi, ripercorrere, per apprezzare appieno l’evoluzione normativa a presidio della libertà di informazione e il nesso inscindibile tra questa e l’esercizio della democrazia.

  1. La storia dell’Italia unita, in tema di libertà di stampa, ha avuto avvio con l’art. 28 dello Statuto Albertino del 4 marzo 1848, che recepiva il modello francese, di matrice positivistica, cristallizzato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1789 (art. 11).

Il richiamato art. 28 stabiliva che «la stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi». Si conferiva così al Parlamento, stante il carattere flessibile dello Statuto, una sorta di delega in bianco per «reprimere gli abusi» e adottare, quindi, nel tempo qualsiasi provvedimento anche restrittivo di tale libertà.

Fece seguito, ad integrazione della generica formulazione della norma statutaria, il r.d. 26 marzo 1848, n. 695, meglio noto come “Editto Albertino sulla Stampa”, che rifletteva una concezione liberale e abbastanza garantista. L’art. 1, infatti, statuiva che «La manifestazione del pensiero per mezzo della stampa e di qualsiasi artificio meccanico atto a riprodurre segni figurativi, è libera: quindi ogni pubblicazione di stampati, incisioni, litografie, oggetti di plastica e simili è permessa con che si osservino le norme seguenti». L’Editto, inoltre, vietava provvedimenti restrittivi di carattere preventivo (censura) e consentiva l’ammissibilità del sequestro, previa autorizzazione del giudice, soltanto in caso di commissione di reati a mezzo stampa e di accertata responsabilità penale.

11.1. Nel volgere di pochi anni, però, l’impianto dell’Editto, a causa delle tensioni che conseguirono al raggiungimento dell’unità d’Italia, subì uno stravolgimento per effetto dell’approvazione di alcune leggi di polizia.

Il riferimento è alle leggi 13 novembre 1859, n. 3720, 20 marzo 1865, n. 2248, 30 giugno 1889, n. 6144, che incisero sensibilmente sulla ratio ispiratrice dell’Editto, riducendo le garanzie in esso previste.

Venne introdotta l’autorizzazione obbligatoria di polizia per l’esercizio dell’attività tipografica; si riconobbe all’autorità di pubblica sicurezza il potere di disporre il sequestro preventivo; la responsabilità penale per i reati a mezzo stampa, già prevista per l’autore dell’articolo e per il gerente responsabile, venne estesa anche agli editori; la prescritta comunicazione alla Segreteria di Stato per gli affari interni dell’avvio delle pubblicazioni assunse, di fatto, i connotati di una vera e propria autorizzazione, che poteva quindi anche essere negata.

11.2. All’inizio del ventesimo secolo, recuperato un clima di maggiore distensione con la stabilità politica e sociale del periodo giolittiano, la legge 28 giugno 1906, n. 278 (c.d. legge Sacchi), abolì la licenza di polizia per l’esercizio dell’arte tipografica, stabilì chiaramente che il giudice poteva disporre il sequestro degli stampati solo a seguito di sentenza di condanna del responsabile e che il sequestro preventivo poteva essere disposto, sempre dal giudice e non ad iniziativa dell’autorità di pubblica sicurezza, esclusivamente nei casi di pubblicazioni contrarie al buon costume e di pubblicazioni non depositate presso l’autorità pubblica.

11.3. A seguito del coinvolgimento dell’Italia nel primo conflitto mondiale, vi fu un nuovo irrigidimento, in senso illiberale, della normativa in materia.

Con la legge n. 83 del 1915 e il r.d. n. 675 dello stesso anno, si attribuì al potere esecutivo la facoltà di vietare la pubblicazione di ogni notizia di carattere militare e al prefetto il compito di sequestrare le pubblicazioni non rispettose di tale divieto. Per evitare il sequestro, fu prevista anche la facoltà di sottoporre preventivamente gli stampati al prefetto, per ottenere il nulla osta alla pubblicazione, facoltà avvertita progressivamente come un obbligo in capo agli editori, il che si concretizzò in una vera e propria forma di censura preventiva.

11.4. La situazione peggiorò ulteriormente con l’avvento del regime fascista.

Con una serie di interventi legislativi (r.d.l. n. 3288 del 1923; r.d.l. n. 1081 del 1924; leggi n. 2307, n. 2308, n. 2309 del 1925; testi unici della legislazione di pubblica sicurezza del 1926 e del 1931 e relativi regolamenti), la libertà di stampa, in linea con la tendenza del regime a reprimere ogni forma di dissenso, subì severe restrizioni: sul gerente responsabile delle pubblicazioni periodiche gravava una responsabilità a titolo oggettivo per fatto altrui, mentre la sua responsabilità, per le pubblicazioni non periodiche, era sussidiaria a quella dell’autore e dell’editore; la sua nomina doveva ottenere il placet del prefetto, che poteva liberamente revocarla, determinando conseguentemente la chiusura del giornale; la figura del gerente venne poi sostituita da quella del direttore responsabile, nominato dalla Corte d’appello; l’iscrizione obbligatoria all’Albo dei giornalisti, subordinata alla certificazione prefettizia di buona condotta politica, era funzionale a garantire che non venissero divulgate notizie ed opinioni contrarie al regime; furono ampliati i poteri dell’autorità di pubblica sicurezza, con la reintroduzione della licenza di polizia per l’esercizio dell’arte tipografica e con l’attribuzione alla polizia del potere, assolutamente discrezionale, di procedere al sequestro preventivo degli stampati, a prescindere dall’accertamento giudiziario di eventuali responsabilità penali; ogni aspetto della vita culturale venne sottoposto a rigoroso controllo e la comunicazione politica del regime, opportunamente filtrata dall’Ente Stampa, risultò omogenea nei diversi organi di informazioni.

  1. Con la caduta del regime fascista e alla vigilia del referendum del 2 giugno 1946, vi fu un primo intervento legislativo, che rappresentò una svolta radicale rispetto al passato e restituì alla stampa la sua dignità di diritto di libertà.

Il r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 561, ancora oggi in vigore, abolito il sequestro preventivo ad iniziativa dell’autorità di pubblica sicurezza, prevede il sequestro come strumento esclusivamente repressivo, attivabile dal giudice solo in caso di condanna irrevocabile per un reato a mezzo stampa. Prima della condanna irrevocabile, consente, tuttavia, all’autorità giudiziaria di disporre il sequestro probatorio di sole tre copie dello stampato ai fini dell’accertamento di eventuali responsabilità penali (art. 1). Le uniche ipotesi di sequestro preventivo rimaste in vita (art. 2) sono quelle aventi ad oggetto giornali o stampati dal contenuto osceno o offensivo della pubblica decenza ovvero divulganti mezzi rivolti a procurare l’aborto (dichiarato incostituzionale, con sentenza n. 49 del 1971, il riferimento anche alla divulgazione di mezzi rivolti “a impedire la procreazione”).

  1. La Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 10gennaio 1948, proclama testualmente all’art. 21:

«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo d’ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni».

L’Assemblea costituente, in attuazione della XVII disposizione transitoria della Carta fondamentale, varò anche la legge 8 febbraio 1948, n. 47, intitolata “Disposizioni sulla stampa“.

I due eventi sono da raccordare e si integrano tra loro.

L’art. 21, secondo comma, Cost. sancisce che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Il termine “stampa” compare per la prima volta nel dettato costituzionale e l’art. 1 della legge n. 47 del 1948 precisa che sono da considerarsi stampe o stampati «tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione».

L’art. 2 della stessa legge disciplina le indicazioni obbligatorie sugli stampati, finalizzate a individuare i responsabili di eventuali illeciti. La previsione de1 successivo art. 5 circa l’obbligo di registrazione della stampa periodica presso la cancelleria del competente Tribunale non è in contrasto con il dettato costituzionale della non assoggettabilità della stampa ad autorizzazioni, considerato che non v’è alcun margine di discrezionalità dell’organo competente a ordinare l’iscrizione del giornale nell’apposito registro, ove la documentazione presentata sia regolare (Corte cost., sent. n. 31 del 1957).

L’art. 21, terzo comma, Cost., disciplina l’istituto del sequestro, sottoponendolo alla duplice garanzia della riserva di legge e di giurisdizione.

Il sequestro della stampa può essere disposto, con atto motivato dell’autorità giudiziaria, soltanto nel caso di delitti per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi o nel caso di stampa clandestina. Il riferimento alla legge sulla stampa non introduce una riserva qualificata di legge, ma è indicativo del complesso delle norme riguardanti la materia (Corte cost., sentt. n. 4 del 1972 e n. 60 del 1976).

I casi nei quali le leggi vigenti consentono il sequestro preventivo sono: a) violazione delle norme sulla registrazione delle pubblicazioni periodiche e sull’indicazione dei responsabili (artt. 3 e 16 legge n. 47 del 1948); b) stampati osceni o offensivi della pubblica decenza ovvero divulganti mezzi atti a procurare l’aborto (art. 2 r.d.lgs. n. 561 del 1946); c) stampa periodica che faccia apologia del fascismo (art. 8 legge 20 giugno 1952, n. 645); d) violazione delle norme a protezione del diritto d’autore (art. 161 legge 22 aprile 1941, n. 633).

La disciplina costituzionale differenzia la stampa periodica da quella comune e ulteriori differenze sono rinvenibili nella legge n. 47 del 1948, che rende gli adempimenti relativi alla stampa periodica (indicazioni obbligatorie, obbligo di registrazione) più gravosi rispetto a quelli previsti per la stampa comune.

L’art. 8 della legge n. 47 del 1948 introduce il nuovo istituto della rettifica, estraneo alla precedente normativa.

La legge sulla stampa, inoltre, non ha modificato la disciplina codicistica dei reati che possono essere commessi attraverso l’esercizio dell’attività giornalistica, ma si è limitata a introdurre nell’ordinamento la categoria dei “reati di stampa” (art. 16 sulla stampa clandestina) e a integrare le previsioni concernenti i “reati a mezzo stampa” (artt. 13, 14, 15).

Per i reati commessi a mezzo della stampa periodica, la responsabilità penale grava non solo sull’autore dell’articolo incriminato ma anche sul direttore o vice-direttore responsabile, il quale risponde per fatto proprio a titolo di culpa In vigilando (art. 57 cod. pen., come sostituito dall’art. 1 della legge 4 marzo 1958 n. 127), escludendosi qualsiasi forma di responsabilità di tipo oggettivo o per così dire – “di posizione”, come accadeva in epoca fascista.

Numerosi interventi normativi susseguitisi nel tempo prevedono, infine, in attuazione dell’art. 21, comma quinto, Cost., finanziamenti pubblici in favore dell’editoria giornalistica, nella prospettiva di garantire il massimo pluralismo dell’informazione e arginare fenomeni concentrazionistici.

  1. La disciplina costituzionale della libertà di informazione (art. 21) – già arricchita nella sua interpretazione dall’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948 – è oggi completata dalle disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che, all’art. 10, riconosce espressa tutela ai profili attivi e passivi della libertà di manifestazione del pensiero.

La giurisprudenza della Corte di Strasburgo, peraltro, attribuendo un significato molto ampio alla tutela accordata dalla disciplina convenzionale, ha chiarito che l’informazione a mezzo stampa ricopre il ruolo di watch dog dei pubblici poteri, considerato che i lettori hanno il diritto di ricevere informazioni in merito alle azioni dei titolari di funzioni pubbliche, con la conseguente estensione della tutela convenzionale anche alle opinioni che possano risultare sgradite (Corte EDU, 21/01/1999, Fressoz e Roire c. Francia; 26/09/1995, Vogt c. Germania; 26/11/1991, Observer e Guardian c. Regno Unito).

  1. All’esito di tale excursus storico sulla normativa d’interesse, può affermarsi che l’Italia democratica – a differenza di quanto accaduto per lo Statuto Albertino e l’Editto sulla stampa, che rappresentarono una elargizione del Sovrano ai sudditi – ha guadagnato da sé la Costituzione e la legge sulla stampa, reagendo al ventennio fascista, in cui ogni forma di libertà era stata sospesa in attuazione di un preciso disegno politico volto a controllare, in particolare, il settore dell’informazione, per assicurarsi il consenso dell’opinione pubblica.

La Carta Fondamentale, in antitesi con l’impostazione dirigistica e repressiva propria del regime fascista, garantisce il principio della libera manifestazione del pensiero e non consente che la stampa possa essere soggetta ad autorizzazioni o censure. La libertà di stampa è condizione imprescindibile per il libero confronto di idee, nel quale la democrazia affonda le sue radici, e per la formazione di un’opinione pubblica avvertita e consapevole.

Sulla base di tali principi, il Costituente – come innanzi si è precisato – ha accordato alla “stampa” una specifica e rafforzata tutela (art. 21, terzo comma), inibendo, nel caso di delitti commessi con tale mezzo, il ricorso all’istituto del sequestro preventivo se non nelle ipotesi tassativamente previste, come eccezioni, dalla legge.

Esemplificando, l’offensività della condotta diffamatoria a mezzo stampa, proprio perché considerata normativamente recessiva, nel bilanciamento di valori, rispetto alla salvaguardia della libertà di informazione, non può legittimare l’adozione della misura cautelare reale; ad opposta conclusione deve pervenirsi in ipotesi di pubblicazioni a contenuto osceno ovvero contrario alla pubblica decenza o al buon costume, considerato che la tutela del corrispondente bene giuridico protetto prevale, per espressa previsione del legislatore (art. 2 r.d.lgs.

  1. 561 del 1946; art. 21, sesto comma, Cost.), su quella della libertà di stampa 16. L’operatività della disciplina costituzionale, così come compatibilmente integrata dalla legislazione ordinaria, in materia di sequestro preventivo della stampa risulta per lo più condizionata dalla definizione che di questa si rinviene nella legge n. 47 del 1948, la quale, senza occuparsi in alcun modo della materia cautelare, regola i presupposti di realizzazione e diffusione della stampa, chiarendo che per tale si considerano le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione (art. 1).

I più recenti arresti giurisprudenziali di questa Corte Suprema (Sez. 5, n. 10594 del 05/11/2013, dep. 2014, Montanari) e voci autorevoli della dottrina ritengono che le garanzie costituzionali in tema di sequestro preventivo della stampa non siano estensibili alle manifestazioni del pensiero destinate ad essere trasmesse in via telematica, ivi comprese quelle oggetto di articoli giornalistici pubblicati sul web, e ciò perché il termine “stampa” sarebbe stato assunto dalla norma costituzionale nella accezione tecnica innanzi precisata, vale a dire con riferimento alla sola “carta stampata“.

A conforto di tale opzione ermeneutica, si è evidenziato che nessun esito ebbe la proposta di revisione costituzionale, contenuta nella relazione finale che la Commissione bicamerale “Bozzi” (istituita il 14/04/1983) presentò, in data 29 gennaio 1985, al Parlamento. In particolare, con le ipotesi di riscrittura dell’art. 21 e di introduzione – nella Parte I, Titolo I – dell’art. 21-ter, si mirava ad omologare le manifestazioni del pensiero espresse con altri mezzi di diffusione dell’informazione a quelle a mezzo stampa, anche ai fini della eseguibilità del sequestro. La mancata realizzazione dell’auspicata revisione costituzionale non consentirebbe all’interprete – secondo tale indirizzo interpretativo – di estendere automaticamente la specifica garanzia negativa apprestata dall’art. 21, terzo comma, Cost. all’informazione giornalistica diffusa per via telematica.

  1. Tale conclusione, però, pur di fronte alla colpevole inerzia del legislatore, rimasto insensibile a ogni sollecitazione di fare chiarezza sullo specifico punto controverso, non può essere condivisa.

Si verrebbe a determinare – come consapevolmente avvertono gli stessi sostenitori della tesi che si contrasta – un’evidente situazione di tensione con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. Si legittimerebbe, infatti, un irragionevole trattamento differenziato dell’informazione giornalistica veicolata su carta rispetto a quella diffusa in rete, con la conseguenza paradossale che la seconda, anche se mera riproduzione della prima, sarebbe assoggettabile, diversamente da quest’ultima, a sequestro preventivo.

E’ necessario, pertanto, discostarsi dall’esegesi letterale del dettato normativo e privilegiare una interpretazione estensiva dello stesso, sì da attribuire al termine “stampa” un significato evolutivo, che sia coerente col progresso tecnologico e, nel contempo, non risulti comunque estraneo all’ordinamento positivo, considerato nel suo complesso e nell’assetto progressivamente raggiunto nel tempo.

L’interpretazione estensiva, se coerente con la mens legis – nel senso che ne rispetta lo scopo oggettivamente inteso, senza porsi in conflitto con il sistema giuridico che regola il settore d’interesse – consente di discostarsi dalle definizioni legali, le quali sono semplici generalizzazioni destinate ad agevolare l’applicazione della legge in un determinato momento storico, e di accreditare al dato normativo un senso e una portata corrispondenti alla coscienza giuridica e alle necessità sociali del momento attuale.

  1. Prima, però, di esporre le ragioni che inducono a legittimare, nel rispetto del principio di legalità, una interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata del termine “stampa”, è necessario chiarire che l’esito di tale operazione ermeneutica non può riguardare tutti in blocco i nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, pagine Facebook), a prescindere dalle caratteristiche specifiche di ciascuno di essi, ma deve rimanere circoscritto a quei soli casi che, per i profili strutturale e finalistico che li connotano, sono riconducibili, come meglio si preciserà in seguito, nel concetto di “stampa” inteso in senso più ampio.

Ed invero, deve tenersi ben distinta, ai fini che qui interessano, l’area dell’informazione di tipo professionale, veicolata per il tramite di una testata giornalistica on line, dal vasto ed eterogeneo ambito della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo.

18.1. Il forum è una bacheca telematica, un’area di discussione, in cui qualsiasi utente o i soli utenti registrati (forum chiuso) sono liberi di esprimere il proprio pensiero, rendendolo visionabile agli altri soggetti autorizzati ad accedervi, attivando così un confronto libero di idee in una piazza virtuale. Il forum, per struttura e finalità, non è assimilabile ad una testata giornalistica e non è soggetto, pertanto, alle tutele e agli obblighi previsti dalla legge sul stampa.

18.2. Non diversa deve essere la conclusione per il blog (contrazione di web log, ovvero “diario in rete“), che è una sorta di agenda personale aperta e presente in rete, contenente diversi argomenti ordinati cronologicamente. Il blogger pubblica un proprio post, vale a dire un messaggio testuale espressivo della propria opinione, e lo apre all’intervento e al commento dei lettori; oppure ospita i post di altri soggetti che vogliono esprimere la loro opinione in merito a un determinato fatto.

18.3. Anche il social-network più diffuso, denominato Facebook, non è inquadrabile nel concetto di “stampa“, ma è un servizio di rete sociale, lanciato nel 2004 e basato su una piattaforma software scritta in vari linguaggi di programmazione; offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema.

18.4. Altrettanto dicasi, infine, per la newsletter, che è un messaggio scritto o per immagini, diffuso periodicamente per posta elettronica e utilizzato frequentemente a scopi pubblicitari; per i newsgroup, che sono spazi virtuali in cui gruppi di utenti si trovano a discutere di argomenti di interesse comune; per la mailing list, che è un metodo di comunicazione, gestito per lo più da aziende o associazioni, che inviano, tramite posta elettronica, a una lista di destinatari interessati e iscritti informazioni utili, in ordine alle quali si esprime condivisione o si attivano discussioni e commenti.

18.5. Conclusivamente, le forme di comunicazione telematica testé citate sono certamente espressione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (art. 21, primo comma, Cost.), ma non possono godere delle garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa. Rientrano, infatti, nei generici siti Internet che non sono soggetti alle tutele e agli obblighi previsti dalla normativa sulla stampa.

  1. La riflessione, quindi, deve essere concentrata sul fenomeno, sempre più diffuso, dei giornali telematici che affollano l’ambiente virtuale e che sono disponibili, in alcuni casi, nella sola versione on line e, in altri, si affiancano alle edizioni diffuse su supporto cartaceo.

E’ di intuitiva evidenza che un quotidiano o un periodico telematico, strutturato come un vero e proprio giornale tradizionale, con una sua organizzazione redazionale e un direttore responsabile (spesso coincidenti con quelli della pubblicazione cartacea), non può certo paragonarsi a uno qualunque dei siti web innanzi citati, in cui chiunque può inserire dei contenuti, ma assume una sua peculiare connotazione, funzionalmente coincidente con quella del giornale tradizionale, sicché appare incongruente, sul piano della ragionevolezza, ritenere che non soggiaccia alla stessa disciplina prevista per quest’ultimo.

E’ questo specifico aspetto che merita di essere approfondito. 20. Osserva il Collegio che l’art. 1 della legge n. 47 del 1948 si limita a definire esplicitamente il concetto di stampa nella sua accezione tecnica di riproduzione tipografica o comunque ottenuta con mezzi meccanici o fisicochimici.

Il termine “stampa”, però, ha anche un significato figurato e, in tal senso, indica i giornali, che sono strumento elettivo dell’informazione e lo erano soprattutto all’epoca in cui entrarono in vigore la Carta Fondamentale e la richiamata legge n. 47 del 1948, quando cioè gli altri mass media, in particolare la televisione e i siti di informazione on line, non erano operativi.

Questo concetto di stampa in senso figurato definisce il prodotto editoriale che presenta i requisiti ontologico (struttura) e teleologico (scopi della pubblicazione) propri di un giornale. La struttura di questo è costituita dalla “testata“, che è l’elemento che lo identifica, e dalla periodicità regolare delle pubblicazioni (quotidiano, settimanale, mensile); la finalità si concretizza nella raccolta, nel commento e nell’analisi critica di notizie legate all’attualità (cronaca, economia, costume, politica) e dirette al pubblico, perché ne abbia conoscenza e ne assuma consapevolezza nella libera formazione della propria opinione.

A ben vedere, il concetto di stampa così rilevato, anche se non esplicitato, non è estraneo alla legge n. 47 del 1948, che, all’art.1, al di là della definizione in senso tecnico enunciata, evoca il requisito della destinazione alla pubblicazione (quindi alla diffusione dell’informazione) e, agli artt. 2 e s., detta la disciplina per i giornali e i periodici di ogni altro genere, con riferimento alle indicazioni obbligatorie che in essi devono comparire, ai requisiti richiesti per rivestire il ruolo di direttore responsabile, all’obbligo di registrazione, all’obbligo di rettifica.

Anche il r.d.lgs. n. 561 del 1946, tuttora in vigore, fa generico riferimento ai «giornali» o ad «altre pubblicazioni», nel disciplinare le ipotesi di sequestro degli stessi.

L’art. 21, primo comma, Cost., proclama solennemente la libertà di manifestare il proprio pensiero «con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». La norma, di carattere generale e precettivo, ha una portata molto ampia, nel senso che riconosce a tutti i consociati, in quanto individui, tale diritto di libertà ed incide inevitabilmente sulle specifiche previsioni che i successivi commi dello stesso art. 21 riservano alla “stampa”, che è la più importante espressione della libera manifestazione del pensiero. Certamente lungimirante è l’espressione utilizzata dal Costituente «con […] ogni altro mezzo di diffusione», che oggi abbraccia anche intemet, frontiera moderna per la diffusione dell’informazione professionale, ancorata ai valori della responsabilità e della correttezza.

E’ evidente che l’area riduttiva del significato attribuito al termine “stampa” dall’art. 1 della legge n. 47 del 1948 è strettamente legata alle tecnologie dell’epoca, il che non impedisce – oggi – di accreditare, tenuto conto dei notevoli progressi verificatisi nel settore, una interpretazione estensiva del detto termine, la quale non esorbita dal campo di significanza del segno linguistico utilizzato ed è coerente col dettato costituzionale.

Lo scopo informativo è il vero elemento caratterizzante l’attività giornalistica e un giornale può ritenersi tale se ha i requisiti, strutturale e finalistico, di cui si è detto sopra, anche se la tecnica di diffusione al pubblico sia diversa dalla riproduzione tipografica o ottenuta con mezzi meccanici o fisico-chimici.

Ma anche a prescindere da tali considerazioni, è il caso di aggiungere che non è certamente dirimente la tesi, secondo cui il giornale telematico non rispecchierebbe le due condizioni ritenute essenziali ai fini della sussistenza del prodotto stampa come definito dalla legge n. 47 del 1948, vale a dire un’attività di riproduzione e la destinazione alla pubblicazione.

E’ possibile, invero, un differente approccio al significato del termine “riproduzione”. La riproduzione può ben essere intesa come potenziale accessibilità di tutti al contenuto dello stampato; la produzione di un testo su intemet è funzionale alla possibilità di riprodurne e leggerne il contenuto sul proprio computer. L’immissione dell’informazione giornalistica in rete, inoltre, lascia presumere la diffusione della stessa, che diventa fruibile da parte di un numero indeterminato di utenti, il che integra la nozione di “pubblicazione”.

L’informazione professionale, pertanto, può essere espressa non solo attraverso lo scritto (giornale cartaceo), ma anche attraverso la parola unita eventualmente all’immagine (telegiornale, giornale radio) o altro mezzo di diffusione, qual è intemet (giornale telematico); e tutte queste forme espressive, ove dotate dei requisiti richiesti, non possono essere sottratte alle garanzie e alle responsabilità previste dalla normativa sulla stampa.

Tale conclusione è il frutto di una mera deduzione interpretativa di carattere evolutivo, non analogica, la quale fa leva – nel cogliere fino in fondo, in sintonia con l’evoluzione socio-culturale e tecnologica, il senso autentico dell’art. 1 della legge n. 47 del 1948 – sull’applicazione di un criterio storico-sistematico in coerenza col dettato costituzionale di cui all’art. 21 Cost. 21. Il superamento del concetto di stampa di “gutenberghiana” memoria – d’altra parte – non è affidato esclusivamente alle argomentazioni innanzi sviluppate, ma trova riscontro in altri significativi dati positivi.

Il legislatore, pur pigro nell’intervenire organicamente sul tema specifico della stampa on line, non ha mancato, nel corso degli anni, di approvare una serie di leggi, che segnano chiaramente il superamento dello stretto legame tra informazione professionale e giornale cartaceo, pongono in secondo piano il requisito della necessaria “fisicità” del giornale e polarizzano l’attenzione sulla finalità informativa dell’attività giornalistica, che deve essere contraddistinta da attendibilità, pertinenza, continenza e imparzialità rispetto a qualsiasi altro tipo di informazione.

21.1. In materia di sistema radiotelevisivo – oggetto notoriamente di un continuo “dialogo” tra legislatore e Corte costituzionale – la legge di riforma della RAI 14 aprile 1975, n. 103, la legge 6 agosto 1990, n. 223 (nota come legge Mannmì), ed il d.lgs. 31 luglio 2005, n. 177, offrono una definizione e una disciplina della testata giornalistica televisiva o radiofonica, ricalcando in gran parte, al di là di alcuni specifici aspetti, la regolamentazione della stampa cartacea.

L’art. 10 della legge n. 223 del 1990 (attualmente art. 32-quinquies d.lgs. n. 177 del 2005) ha esteso, infatti, alle emittenti televisive e radiofoniche l’obbligo di registrazione delle rispettive testate giornalistiche, che devono avere un direttore responsabile, e quello della rettifica (artt. 5, 6 e 8 della legge n. 47 del 1948). La detta legge ha posto una netta linea di demarcazione tra telegiornali e giornali radio, da una parte, e trasmissioni di diverso genere effettuate dalle reti delle singole emittenti, dall’altra.

E’ innegabile che la nozione di testata giornalistica radiotelevisiva accredita il concetto contenutistico di stampa e rappresenta un modello per i giornali della rete.

21.2. La legge 31 luglio 1997, n. 249 (nota come legge Maccanico), nell’istituire l‘Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCom), ha previsto anche l’istituzione del Registro degli operatori della comunicazione (ROC), in sostituzione dei preesistenti registri nazionali della stampa e delle imprese radiotelevisive. In tale unico registro sono tenuti ad iscriversi, superando le suddivisioni che avevano caratterizzato in precedenza i singoli settori, tutti gli operatori della comunicazione, ivi comprese le imprese editrici di giornali quotidiani, periodici o riviste, la agenzie di stampa di carattere nazionale, i soggetti esercenti l’editoria elettronica e digitale, le imprese fornitrici di servizi telematici.

21.3. La legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Finanziaria per il 2001), per la prima volta, equipara in modo esplicito, ai fini dei finanziamenti previsti per le imprese editrici, la stampa tradizionale a quella telematica e consacra il principi dell’obbligo di registrazione presso i Tribunali anche delle testate on line. L’art. 153, commi 2 e 3, della legge fa riferimento, in particolare, ai quotidiani e ai periodici telematici espressione dei partiti e dei movimenti politici.

21.4. La legge 7 marzo 2001, n. 62, intitolata «Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali», offre una nuova definizione di “prodotto editoriale”.

Per tale s’intende, ai sensi dell’art. 1, comma 1, «il prodotto realizzato su supporto cartaceo […] o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico».

Questa nuova definizione di prodotto editoriale comporta l’estensione anche all’editoria on line delle norme relative alle indicazioni obbligatorie sugli stampati e all’obbligo di registrazione delle testate giornalistiche e dei periodici.

L’art. 1, comma 3, infatti, testualmente statuisce: «Al prodotto editoriale si applicano le disposizioni di cui all’articolo 2 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. Il prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata, costituente elemento identificativo del prodotto, è sottoposto, altresì, agli obblighi previsti dall’art. 5 della medesima legge n. 47 del 1948».

Si distinguono, quindi, analogamente a quanto previsto dalla legge sulla stampa, due tipi di prodotto editoriale: senza o con periodicità regolare. La prima parte della disposizione testé richiamata prescrive che ogni prodotto editoriale deve contenere le indicazioni di cui all’art. 2 della legge n. 47 del 1948; la seconda parte prevede che devono essere iscritte nell’apposito registro tenuto dalla cancelleria del competente Tribunale le testate telematiche che abbiano le stesse caratteristiche di quelle cartacee.

Poiché la legge in esame aveva sollevato non pochi interrogativi circa la riferibilità delle disposizioni in essa contenute anche all’informazione di natura non professionale, sebbene a carattere periodico, il d.lgs. n. 70 del 2003 ha precisato (art. 7, comma 3) che la registrazione della testata editoriale telematica è obbligatoria esclusivamente per le attività per le quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle provvidenze economiche previste dalla legge n. 62 del 2001.

21.5. Anche il d.l. 18 maggio 2012, n. 63, convertito dalla legge 16 luglio 2012, n. 103, intervenendo in maniera urgente sul riordino dei contributi alle imprese editrici, si muove lungo la linea di omologazione della testata giornalistica in edizione digitale a quella in edizione cartacea, statuendo che, in caso di pubblicazione di entrambe con lo stesso marchio editoriale, l’impresa non è obbligata alla duplice iscrizione, ma soltanto a dare apposita comunicazione al registro degli operatori di comunicazione (art. 3, comma 2, ultimo periodo). La medesima legge contiene disposizioni (art. 3-bis) volte a favorire l’editoria digitale, esentando dall’obbligo di registrazione presso il Tribunale e di iscrizione al ROC i periodici di piccole dimensioni (ricavi annui non superiori a 100.000 euro) diffusi esclusivamente via web. Di norma, quindi, i giornali telematici sono soggetti agli obblighi di cui alle leggi n. 47 del 1948 e n. 62 del 2001.

  1. Tutto quanto esposto legittima, pertanto, una interpretazione costituzionalmente orientata del concetto di “stampa“, idoneo ab origine ad adeguarsi alla prevedibile evoluzione dei tempi e a ricomprendere la nuova realtà dei quotidiani o periodici on line regolarmente registrati e destinatari, al pari della stampa tradizionale, delle provvidenze pubbliche previste per l’editoria.

I successivi e numerosi interventi – sia pure disorganici e farraginosi – del legislatore, ai quali si è fatto cenno, non costituiscono una fonte di rilettura della legge n. 47 del 1948, bensì sopravvenienze coerenti con questa, della quale viene colta e assorbita la reale portata, per estenderne la relativa disciplina anche alle testate giornalistiche telematiche.

La previsione dell’obbligo di registrazione della testata on line, che deve contenere le indicazioni prescritte e deve essere guidata da un direttore responsabile, giornalista professionista o pubblicista, non è un mero adempimento amministrativo fine a sé stesso, ma è funzionale a individuare le responsabilità (civili, penali, amministrative) collegate alle pubblicazioni e a rendere operative le corrispondenti garanzie costituzionali, aspetti questi che, in quanto strettamente connessi e consequenziali alla detta previsione, sono ineludibili.

Conclusivamente, il giornale telematico, sia se riproduzione di quello cartaceo, sia se unica e autonoma fonte di informazione professionale, soggiace alla normativa sulla stampa, perché ontologicamente e funzionalmente è assimilabile alla pubblicazione cartacea. E’, infatti, un prodotto editoriale, con una propria testata identificativa, diffuso con regolarità in rete; ha la finalità di raccogliere, commentare e criticare notizie di attualità dirette al pubblico; ha un direttore responsabile, iscritto all’Albo dei giornalisti; è registrato presso il Tribunale del luogo in cui ha sede la redazione; ha un hostig pro vider, che funge da stampatore, e un editore registrato presso il ROC.

Ovviamente – è il caso di sottolinearlo – le garanzie e le responsabilità previste, per la stampa, dalle disposizioni sia di rango costituzionale, sia di livello ordinario, devono essere riferite ai soli contenuti redazionali e non anche ad eventuali commenti inseriti dagli utenti (soggetti estranei alla redazione), che attivano un forum, vale a dire una discussione su uno o più articoli pubblicati.

Il percorso ermeneutico privilegiato, per pervenire alla ritenuta equiparazione tra i due prodotti editoriali, è il solo che scongiura tensione cr1r /(2 principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Carta fondamentale, evitando il rischio di riservare, al di là di qualsiasi ragionevolezza, trattamenti differenziati a due fattispecie praticamente identiche sotto il profilo della loro funzionalità (diffusione dell’informazione professionale).

Conseguentemente, la “stampa telematica“, al pari di quella tradizionale, in quanto emancipata da qualsiasi forma di censura, non può essere sottoposta a sequestro preventivo, se non nei casi eccezionali espressamente previsti dalla legge, e soggiace alle norme che disciplinano la responsabilità per gli illeciti commessi.

A margine, è opportuno ricordare che le Corti sovranazionali, in numerose pronunce, hanno data per scontata, ritenendola realtà acquisita, l’equiparazione tra giornale cartaceo e giornale on-line (Corte EDU, 16/07/2013, Wegrzynowski e Smolczewsky c. Polonia; Corte Giustizia, 25/10/2011, Martinez c. Sociètè MGN Limited; Corte Giustizia, 25/10/2011, Date Advertising c. X).

  1. All’esito dell’iter argomentativo sin qui seguito sul tema specifico, vanno enunciati i seguenti principi di diritto:

– “La testata giornalistica telematica, in quanto assimilabile funzionalmente a quella tradizionale, rientra nel concetto ampio di ‘stampa’ e soggiace alla normativa, di rango costituzione e di livello ordinario, che disciplina l’attività d’informazione professionale diretta al pubblico“;

– “Il giornale on line, al pari di quello cartaceo, non può essere oggetto di sequestro preventivo, eccettuati i casi tassativamente previsti dalla legge, tra i quali non è compreso il reato di diffamazione a mezzo stampa“.

  1. Passando ad analizzare la vicenda che coinvolge i due indagati, deve osservarsi quanto segue.

L’atto di ricorso proposto nell’interesse dei predetti, con particolare riferimento al primo motivo di censura, che è decisivo e assorbente rispetto alle altre doglianze, è fondato.

L’ordinanza impugnata, invero, non si fa carico della delicata problematica implicata nel caso esaminato, nonostante il Giudice del riesame ne fosse stato espressamente investito dalla difesa, con specifici motivi scritti in data 25 marzo 2014.

Il provvedimento in verifica, in ogni caso, in palese disarmonia con i principi di diritto innanzi enunciati, ha confermato il decreto di sequestro preventivo della pagina web della testata telematica “Il Giornale.it “, regolarmente registrata, limitandosi a ritenere la sussistenza del fumus dell’ipotizzato reato diffamazione e del pericolo di aggravamento delle conseguenze dannose di tale illecito.

Nel caso specifico, avuto riguardo al titolo di reato per cui si procede, la detta misura cautelare reale, per tutte le considerazioni più sopra svolte, non poteva essere adottata e si risolve in una indiretta e non consentita forma di censura.

Palese è, pertanto, la violazione di legge che contraddistingue sia il provvedimento genetico sia quello di riesame.

Sarebbe stato possibile adottare, ai fini dell’accertamento dell’ipotizzato reato, soltanto il sequestro probatorio, secondo le modalità di cui all’art. 254-bis cod. proc. pen.

Conseguentemente, deve disporsi l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata e del decreto di sequestro preventivo emesso in data 7 marzo 2014 dal G.i.p. del Tribunale di Monza.

La Cancelleria provvederà agli adempimenti di cui all’art. 626 cod. proc. pen.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata, nonché il decreto di sequestro preventivo del 07/03/2014 del G.i.p. del Tribunale di Monza.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 626 cod. proc. pen.

Così deciso il 29/01/2015.

 

 

 

 

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