di Marco Follini
Tra i rigorosi prefetti dello Stato e il rave party delle frange giovanili più estreme non corre mai troppo buon sangue. Un anno fa toccò a Luciana Lamorgese trovarsi sul banco degli imputati per le devastazioni seguite a un raduno nel viterbese. Ora tocca a Matteo Piantedosi venir criticato a sua volta per il frettoloso decreto con cui il nuovo governo si illude di mettere le cose a posto una volta per tutte. Un difetto e un eccesso in mezzo ai quali risulta niente affatto semplice trovare la giusta misura.
Nel frattempo si potrebbe magari riflettere più ampiamente sul destino di quei funzionari dello Stato che vengono chiamati a esercitare responsabilità politiche e di governo. Quelle responsabilità (e quelle discrezionalità, soprattutto) a cui, nella loro vita di prima, erano chiamati a corrispondere piuttosto con diligente e scrupolosa, ma asettica, professionalità.
Personalmente ho stima di entrambi, Lamorgese e Piantedosi. Senza aver confidenza né con l’una né con l’altro. Ma mi permetto di osservare che l’innesto dei servitori dello Stato alla guida dei ministeri non sempre è la soluzione più corretta, né la più felice. Dato che i prefetti sono degli esecutori, di altissimo livello. Mentre i ministri hanno una responsabilità politica nel decidere strategicamente il da farsi.
Nella lunga storia repubblicana abbiamo avuto al Viminale ministri di molto peso politico. Alcuni di loro si sono trovati nel piano delle tempeste dell’epoca. Si pensi a Scelba, che pure fu un ministro capace e meritevole, anche se all’epoca assai controverso. O a Tambroni, che invece ebbe dalla sua una gestione piuttosto disinvolta dei dossier informativi dell’epoca. Per non dire di Cossiga, che dal Viminale si trovò a salire, previe dimissioni, tutti i gradini della scala repubblicana.
Insomma, il ministro degli Interni fu sempre una figura eminentemente politica. Ed era proprio la forza politica detenuta in prima persona che gli consentiva di fare il proprio mestiere con un grado di autorevolezza pari alla difficoltà del compito. Vale la pena di citare, per fare solo due esempi tra i casi più recenti, le figure di Pisanu e Minniti. Il primo ebbe il suo bel daffare per garantire la regolarità della conta dei voti nel 2006, quando il centrosinistra prevalse per una piccola (piccola, ma vera e certificata) maggioranza e il centrodestra si lasciò andare agli ululati. Il secondo ebbe altrettanto daffare nel tentativo di mettere ordine nei flussi migratori dell’epoca. Se ne ebbero critiche, tutti e due. Pisanu da destra e Minniti da sinistra -cioè dalla loro stessa parte. Ma si assunsero tutti e due la responsabilità delle loro decisioni. E resistettero appunto in virtù di quella loro lunga e meritevole cittadinanza politica che conferiva loro l’autorevolezza di cui in quei frangenti c’era bisogno.
Non si vuol dire che Lamorgese e Piantedosi difettino di autorevolezza. Piuttosto, sembra quasi di cogliere quel difetto di autorevolezza proprio sul versante della politica che li ha indicati. Come se ci si volesse liberare di un fardello troppo oneroso sfuggendo alla responsabilità di scegliere in prima persona e di rispondere di tutte le conseguenze che ne possono discendere.
E’ la vecchia, eterna, irrisolta questione del “primato” della politica. Che si illude di governare i processi con l’inflazione delle promesse. Ma che si trova infine ad essere tributaria di competenze verso chi quelle competenze le esercita per mestiere. Con l’effetto di seminare un certo grado di confusione nell’apparato dello Stato.
Si capisce che nel caso dell’attuale governo si è voluto porre un argine a Salvini. Negandogli la titolarità del Viminale e assegnando l’incarico al suo capo di gabinetto della volta prima. Sono acrobazie che spesso la politica si trova a fare nel tentativo di venire a capo delle sue stesse contraddizioni. Nulla di così scandaloso, e forse anche nulla di così inedito. Resta il fatto che ripristinare il confine tra i prefetti e i ministri non sarebbe affatto una cattiva idea. Per gli uni e per gli altri.