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22 Dicembre 2024 23:01

Storia di Paolo, uno spione nella terra dell’omertà

A 34 anni ha fondato in Sicilia “La Spia”, un sito che si occupa di mafia. Da quattro anni il collega siciliano Paolo Borrometi vive sotto scorta: “Ma continuo a credere nei miei sogni”. Borrometi è un vero giornalista che, come noi, pubblica sempre i nomi e cognomi ed usa sopratutto le foto . Perchè il silenzio è mafia

di Virginia Stagni

Paolo Borrometi, 34 anni, nato a Modica (Ragusa), orgogliosamente siciliano (l’accento si sente). È un giornalista e racconta. In questo caso racconta se stesso e la sua vita sotto scorta. Nel 2013 è già collaboratore dell’Agenzia giornalistica Italia, diventa direttore di un quotidiano di inchieste online, La Spia, che ha fondato insieme con alcuni amici partendo da un principio: raccontare è una missione civile, tutti dovrebbero farlo per il bene della propria comunità e di se stessi. Nella terra dell’omertà, La Spia è vista come una manica di tafani di cui Paolo è il capofila. Mette gli occhi su affari scomodi e la cosa, ovviamente, non piace. Per questo vive scortato da quattro anni.

Cosa significa essere un cronista oggi?  

«Oggi è più semplice di quanto non fosse anni fa, spesso ricevo apprezzamenti e riconoscimenti per il mio lavoro. Ma non è stato semplice arrivare qui. Il giudice Falcone diceva che un uomo si può uccidere in due modi, fisicamente o con l’isolamento. Lo cito per spiegare un concetto, non per fare paragoni con lui: io ho vissuto entrambe le cose e l’isolamento è stata la cosa più dura in assoluto, lo è ancora. Uno dei momenti più brutti è stata l’aggressione del 2014: ancora oggi ne porto le conseguenze, ho perso parte della mobilità di una spalla. Due uomini incappucciati mi hanno aggredito e pestato a sangue mentre ero fuori con il cane, ed è successo dopo svariate minacce, una incisa sulla fiancata della mia auto: “Stai attento”. Dopo l’aggressione, è stato anche peggio: mi hanno accusato di aver inventato tutto, mi hanno dato del pazzo, del visionario, mi hanno additato come quello che vede la mafia dove non c’è».

Vedi cose che gli altri non vogliono vedere? Quali?  

«In Sicilia si risolve tutto dicendo che è una “questione di fimmine”, un problema di donne. Sì, i problemi per i siciliani sono due: le donne e il traffico. Il traffico, per una battuta del film Johnny Stecchino, che lo definisce come “la piaga che veramente diffama la Sicilia, e in particolare Palermo, agli occhi del mondo”. Le donne, invece, sono il motivo per cui ci si scontra tra “ommini”. Io vedo il resto, quello che i più non vogliono vedere. Come Peppino Impastato, del quale dicevano che era scomparso per una questione di fimmine. E Pippo Fava, e moltissimi altri. La mafia non c’entra niente, la mafia non esiste. Anche con me hanno provato a fare lo stesso, ed è la cosa peggiore: trovarti a fare il tuo lavoro, raccontare ciò che vedi con i tuoi occhi e scontrarti con chi cerca di distruggere la tua credibilità, la tua persona, le tue parole. Questo è assolutamente devastante».

nella foto Paolo Borrometi al desk

Dopo quattro anni cosa è cambiato?  

«Dopo i riconoscimenti del Presidente del Senato e poi quelli del Presidente della Repubblica, è tutto molto più semplice: è più difficile affermare che sia falso ciò che racconto. E poi le mie inchieste hanno portato effetti concreti. Il comune di Scicli è stato sciolto per mafia, il mercato ortofrutticolo di Vittoria – il più grande del Sud Italia – è stato interessato da diverse inchieste per mafia , il capo mafia Gionbattista Ventura è stato arrestato ed è a processo, altri boss di Vittoria sono stati arrestati. Insomma, il mio lavoro ha mosso qualcosa».

Sei un sostenitore dell’Europa. Credi che la mafia sia un argomento di dibattito europeo? Non credi che sia un fatto circostanziato all’Italia o, ancora peggio, ai localismi del Sud?  

«Per vincere questa battaglia dobbiamo uscire dai nostri confini. La libertà d’informazione dovrebbe proprio portare a questo: i cittadini italiani ed europei devono sapere, perché le attività criminali mafiose sono molto radicate anche fuori dal Sud d’Italia».

Per raccontare questi fatti hai scelto un mezzo indipendente, oltre alla tua attività di collaboratore per l’Agi. Come nasce l’avventura de La Spia?  

«La Spia nasce il 1 settembre 2013, avevo 30 anni. La sua storia è la storia di Ragusa, la provincia più ricca della Sicilia nella quale – per fare un esempio – nessuno si occupa della morte di Giovanni Spampinato, uno dei primi cronisti uccisi dalle criminalità organizzate. Sono cresciuto con il culto di questo giornalista, con la voglia di comprendere perché quando si parla di Spampinato c’è ancora chi dice “Se l’è cercata”. La maggior parte dei ragusani non lo conosce. Parlare di mafia a Ragusa quando ero bambino era tabù: ho lavorato per cancellare questo tabù».

Si diceva che la provincia di Ragusa fosse la provincia “babba”, senza mafia. Lo disse perfino Leonardo Sciascia a Giuseppe Bufalino. La mafia non esiste, parlarne è da visionari.  

«Per questo io e alcuni amici e colleghi creammo un giornale di inchieste che mettessero in luce ciò che non va nel ragusano».

Chi sono le tue penne, i tuoi testimoni oculari?  

«Dal sindacalista quasi sessantenne al giornalista di grido cinquantenne fino ai più giovani: abbiamo rappresentanti di istituto che raccontano la loro realtà di studenti. Sono tutte persone impegnate su diversi fronti. Riassumendo: non sono indifferenti».

Quali erano i sogni di Paolo Borrometi a 20 anni?  

«Mi sono laureato in giurisprudenza, vengo da una famiglia di avvocati e potevo seguire quella strada. Ma ho sempre amato il giornalismo. Tutto è iniziato scrivendo articoli di cultura quando ero all’università. Raccontavo le bellezze che mi circondavano, senza filtri. Oggi, dopo tanti anni e tante vicissitudini cerco di continuare così: puro e privo di compromessi».

Parola fondamentale, compromesso. Come la spiegheresti?  

«La Sicilia è abitata da 5 milioni di persone che sono state per troppo tempo ostaggio di 7 mila mafiosi. Questo è stato il compromesso che ha portato i siciliani a vivere in una terra in cui vige l’omertà. Un compromesso al ribasso: svendere gli interessi della propria terra, quella dove cresceranno i propri figli e i nipoti, facendo finta di non vedere. Ed è così che nelle scuole, dove vado spesso, spiego la parola compromesso».

Hai chiamato il tuo sito La Spia, parola che non ha una connotazione positiva. Perché?  

«L’esempio è Libero Grassi. Un imprenditore che ha fatto la spia ed è morto per questo. Una delle prime cose che mi sentivo dire agli inizi della mia carriera di cronista era proprio “sii unu spiune, sii unu sbirru”. Sbirro, poliziotto, carabiniere: le parole che in Sicilia si usano per definire chi denuncia, ovviamente in senso spregiativo. Io voglio riabilitare il concetto di spia. Chi porta alla luce la criminalità organizzata non è una spia, è uno che respira solo il fresco profumo della libertà di denunciare il puzzo del compromesso. Da qui nasce La Spia».

Hai un metodo di lavoro?  

«Uso sempre nomi e cognomi e, soprattutto, uso le foto. Scelte rischiose, ma imprescindibili: spesso le persone di cui si parla nelle inchieste locali si incontrano al bar, in piazza o dal barbiere. I miei articoli smorzano l’omertà di chi si nasconde dietro al “non sapevo” perché obbligano tutti a sapere. È la prima mossa per combattere l’omertà e, di conseguenza, la mafia».

Ti consideri un ottimista o un sognatore?  

«Sicuramente un sognatore».

Utopico?  

«No, per nulla. Nei miei sogni non c’è solo ottimismo, è ben presente anche il pessimismo che comporta vivere in una situazione come questa. Però lavoro sempre guardando al bicchiere mezzo pieno. La speranza associata al pessimismo, diventa speranza negata, quindi sconforto e desolazione. Io preferisco pensare che i miei sogni non siano un’utopia, che i sogni facciano bene, ci indichino la via per continuare a vivere anche nelle circostanze più anguste. Una vita senza sogni sarebbe una vita sprecata».

Che cosa è per te il bello?  

«Ho visto il bello, una volta: il volto di una madre che riesce ad avere giustizia per il proprio figlio ucciso. Il bello è per me questo, e molte cose ancora. Cose che vedo nei miei sogni».

Quando vai a dormire dici “oggi ne è valsa la pena”?  

«Sì. Cerco solo e unicamente di fare il mio lavoro. Il mio lavoro mi richiede di rispettare un obbligo, quello di raccontare ciò che vedo. Il prezzo che si paga non deve riguardare il giornalista ma la società civile, che deve fare scudo perché quel giornalista, quel magistrato, quell’imprenditore continuino a fare ciò che fanno nonostante le circostanze».  

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