di Marco Follini
Ha destato scandalo, giustamente (e inevitabilmente), quel moto di affettuosa solidarietà politica e generazionale con cui la professoressa Di Cesare ha salutato la scomparsa della brigatista Balzerani. E’ ovvio che la condanna della violenza deve sempre rimanere un punto fermo nella nostra coscienza pubblica; e il coro unanime di indignazione che s’è levato in questi giorni lo ha ribadito una volta di più.
Detto questo, sarà il caso anche di ricordare che negli anni settanta il terrorismo si affermò, fino a diventare protagonista della nostra storia, potendo contare su solidarietà, complicità, indulgenze, sottovalutazioni che fecero la sua fortuna. Non fu l’invasione degli hyksos, come avrebbe detto Benedetto Croce. Fu un pezzo dell’album di famiglia, come scrisse Rossana Rossanda. E cioè la propaggine estrema e degenerata di un sogno rivoluzionario che attraversò la sinistra e di cui la sinistra si liberò non senza fatica, travaglio e sofferenza.
La scomparsa delle Brigate rosse all’indomani degli anni ottanta e il diffuso cordoglio suscitato dall’omicidio di Moro nel 1979 hanno fatto sì che quel tema venisse poi rimosso una volta per tutte. E per nostra fortuna dei terroristi e dei loro fiancheggiatori si son perse le tracce. Abbiamo mille problemi e mille fratture, ma non più quelli di allora. Cosa di cui ci possiamo perfino compiacere.
A un patto, però. E cioè di non dimenticare come andarono le cose allora. Il terrorismo brigatista non nacque nel vuoto. Alle sue spalle c’erano anni di predicazione rivoluzionaria (l’album di famiglia, appunto). Visioni cupe e drammatiche della nostra società e della nostra economia. Il sospetto che le grandi potenze si prendessero fin troppo facilmente gioco di noi, determinando con cinismo il nostro destino. E sullo sfondo una radicalizzazione della lotta politica e sociale che sembrava preludere, se non proprio alla guerra civile, quantomeno a uno scontro al calor bianco tra le masse popolari e lo Stato imperialista delle multinazionali -a voler usare il lessico di allora.
Fu un grande merito della sinistra di quegli anni, del Pci in modo particolare, l’aver imboccato e tenuta ferma la via di un netto e severo antagonismo verso quella deriva. Il partito di Berlinguer e il sindacato di Lama si trovarono allora in prima fila a contrastare la follia del brigatismo, pagando anche prezzi onerosi sull’altare di quel decisivo chiarimento. Di fronte all’esplosione della violenza archiviarono tutte quelle vaghezze e indulgenze (‘i compagni che sbagliano‘, ‘le sedicenti brigate rosse’) che rischiavano di legittimare la prospettiva della lotta armata. Quella battaglia fu lunga e tormentata, più di quanto dicano le date e i ricordi. E perfino all’indomani di via Fani il terrorismo continuò per molti mesi a seminare morti e veleni nelle nostre contrade.
Ora tutte queste cronache sembrano disperse in un passato che non ha quasi lasciato traccia. E assai probabilmente quel passato non tornerà, figlio com’era di circostanze così particolari. Ma possiamo vivere tranquilli (almeno su questo fronte) solo a una condizione: quella di continuare a guardarci dentro, a scrutare noi stessi, ad ascoltare il paese profondo e lontano, nascosto e inquieto. Proprio quel paese che ci mette sempre un attimo a passare dal brontolio al tumulto.
E allora la domanda che ci si deve porre è se i partiti di oggi sarebbero in grado, in quel caso, di costruire un argine sufficientemente robusto da tenerci tutti al riparo. E se nel frattempo l’apparato dello Stato si sia attrezzato meglio per assicurare quella sicurezza repubblicana che in quegli anni lontani appariva quasi come un miraggio irraggiungibile. Probabilmente la risposta è si, in entrambi i casi. Ma solo a patto di ricordarci, tutti, che il terrorismo di quegli anni è stato un malefico vicino di casa e non già un alieno venuto da Marte.cccccccdcc