La frattura nel Tribunale di Milano fra i vertici della Procura e dell’ufficio Gip è ormai sin troppo evidente , e l’atmosfera nei corridoi di via Freguglia è più glaciale del solito. Mai quanto le parole utilizzate nei rispettivi provvedimenti. Due posizioni sul fenomeno mafioso in Lombardia, molto diverse fra quelle utilizzate dei magistrati della Dda e quelle diametralmente opposte da un giudice delle indagini preliminari.
Le affermazioni a dir poco taglienti utilizzate del Gip Tommaso Perna del Tribunale di Milano sull’inesistenza del “sistema lombardo mafioso”, il concetto poco elegante utilizzato per sostenere la “assoluta novità nel panorama geografico italiano, ma invero anche mondiale e storico”, per un teorema che a suo opinione “ha avvolto qualsiasi attività, lecita o illecita che fosse, svolta dagli odierni indagati, in un mantello di cd. mafiosità che è arduo scorgere nelle sue pieghe, se non in via intuitiva“, non possono finire negli archivi della dialettica giudiziaria.
A fronte di una presa di posizione più che discutibile del Gip, è arrivata la replica del sostituto Alessandra Cerreti, titolare del fascicolo, che ha depositato al Riesame un ricorso avverso all’ordinanza del Gip Perna, all’interno del quale viene contestato ed evidenziato senza tanti giri di parole il metodo “copia e incolla” utilizzato nel passaggio chiave dell’ordinanza cautelare. Si tratta del capitolo 4 della decisione del Gip, dal titolo “Conclusioni sull’associazione mafiosa”, all’interno del quale il giudice Perna esplicita il perimetro, a suo parere, entro il quale poter utilizzare quell’etichetta, sostenendo che “L’associazione mafiosa, come l’associazione semplice delineata nell’art. 416 c.p., integra, dal punto vista strutturale, un reato di pericolo, giacché la sola sua esistenza compromette il bene giuridico tutelato dalla norma (l’ordine e la sicurezza pubblica, nonché la libertà individuale)“.
Ma la pm Cerreti contesta e sostiene nel suo ricorso al Tribunale del Riesame che questo concetto sia stato ripreso, persino nelle virgole e nelle parentesi, da un articolo pubblicato online sul blog dell’avvocato Salvatore Del Giudice, un penalista napoletano che leggendo il suo curriculum non ha alcune esperienza e competenza alcuna competenza sulla criminalità organizzata e sui reati associatici come si evince peraltro dal curriculum presente sul proprio blog . Ma non solo. Nel ricorso della pm Alessandra Cerreti, viene evidenziata un’apposita tabella che comprende altri tredici stralci e capoversi copiati ed incollati nell’ordinanza del Gip Perna. Che riguardano, per esempio, la “concreta estrinsecazione della capacità intimidatoria; per integrare il delitto di associazione mafiosa è necessaria, oltre alla sussistenza del vincolo associativo, un’attività esterna obiettivamente riscontrabile e concretamente percepibile”.
La Procura di Milano contesta anche l’attribuzione ad una sua intuizione originale dell’esistenza del “consorzio”. “È anomalo che tutti gli altri clan, cosche e ’ndrine – sostiene e scrive nell’ordinanza il Gip Perna – si siano limitati ad osservare passivamente la nascita ed espansione di un soggetto così vasto“. ed aggiunge “non risultano infatti, contatti, contrasti, rivendicazioni, malumori» a proposito di “un’associazione dai tratti così innovativi”, l’Hydra che dà il nome all’indagine della Dda “che le associazioni madre hanno accettato di veder nascere“. Mentre la Dda di Milano invece sostiene che la “santa alleanza” delle cosche di ‘ndrangheta operanti nel territorio milanese non è certo una novità.
I sostituti procuratori di Milano applicati alla Dda lo avevano scritto un mese fa al Gip Perna, in una integrazione alla richiesta ignorata, che elencava i “pentiti” che avevano già indicato a verbale ai pm calabresi i teoremi del sistema mafioso. Il pentito reggino Nino Fiume, aveva sostenuto in un verbale del 26 gennaio 2015 che “… tale struttura di vertice, che aveva sede a Milano ed era stata costituita nel 1986-87” confermandolo poi nell’aula del processo Rinascita-Scott. Affermazioni queste allineate e confermate dalle amaloghe dichiarazioni degli altri pentiti di ’ndrangheta Nino Cuzzola e Vittorio Schettini. Un associazione che il pentito pugliese Salvatore Annacondia, uno dei “boss” dell’ ex Sacra Corona Unita definiva essere “la mamma di tutti i gruppi. Una realtà che andava oltre la ’ndrangheta e ricomprendeva ‘ndrangheta, pugliesi, siciliani, campani. Milano e la Lombardia erano la terra di elezione di questo Consorzio“.
Resta da chiedersi a questo punto se anche il Riesame ambrosiano per dirimere la questione, cercherà conforto nel blog dell’ avvocato Salvatore Del Giudice. Ma anche se certa giustizia vuole combattere le mafie o lasciarle proliferare anche nel tessuto economico-finanziario-imprenditoriale lombardo. E se lo chiedono anche i vertici delle forze dell’ordine che indagano quotidianamente.