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5 Novembre 2024 09:21

Travaglio e Il Fatto Quotidiano condannati a risarcire il padre di Matteo Renzi

“Quando le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario sono utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare o a sostituire gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti e autonomamente offensive, il giornalista deve assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie e di dimostrarne la pubblica rilevanza, non potendo reinterpretare i fatti nel contesto di un’autonoma e indimostrata ricostruzione giornalistica”.

ROMA – Scrivere che uno “fa bancarotta”, quando in realtà è soltanto indagato, costituisce  diffamazione. Questo il cardine della sentenza del tribunale di Firenze che ha condannato Marco Travaglio e dato ragione a Tiziano Renzi . Un concetto che non è soltanto l’esito finale di una causa, ma  la ferra censura di un “metodo”. La cultura del sospetto, eretta a paradigma giornalistico dal Fatto Quotidiano , non regge la prova del tribunale.

Tiziano Renzi ha vinto la causa civile per diffamazione intentata nei confronti del Fatto Quotidiano. La ha rivelato  Matteo Renzi nella sua e-news. “Marco Travaglio, una sua collega Gaia Scacciavillani n.d.r.)  la società del Fatto Quotidiano sono stati citati in giudizio da Tiziano Renzi per numerosi articoli. Oggi la prima sentenza. Travaglio, con i suoi colleghi, è stato condannato a pagare a mio padre 95mila euro: è solo l’inizio. Il tempo è galantuomo“, si legge. Il senatore del Pd ed ex premier, Matteo Renzi ha aggiunto su Twitter: “Niente potrà ripagare l’enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni“.

Gli  articoli del Fatto Quotidiano contestati da Renzi padre raccontavano dei rapporti (anche economici) con gli ideatori degli outlet del lusso targati The Mall. In particolare di tre centri commerciali: quello di Leccio Reggello in provincia di Firenze e dei progetti per realizzare altrettanti mall  in Liguria a Sanremo e a Fasano, in provincia di Brindisi.

Capita frequentemente di essere indagati e poi scagionati, anche se per il “metodo Travaglio” certe differenze non contano. “In tema di cronaca giudiziaria relativa alla fase delle indagini preliminari – si legge nel provvedimento del giudice Lucia Schiaretti  grava sul giornalista il dovere, proprio in ragione della fluidità e incertezza ontologica del contenuto delle investigazioni, di raccontare i fatti senza enfasi o indebite anticipazioni di colpevolezza, non essendogli consentite aprioristiche scelte di campo o sbilanciamenti di sorta a favore dell’ipotesi accusatoria, capaci di ingenerare nel fruitore della notizia facili suggestioni, in spregio del principio costituzionale di presunzione d’innocenza dell’imputato e a fortiori dell’indagato sino a sentenza definitiva”.

Quindi un inchiesta giudiziaria  è un’ipotesi di reato tutta da verificare, ed il processo può confermarla o sconfessarla, pertanto il dibattimento non è un rito inutile ma bensì il cuore del procedimento giudiziario. Per questo il titolo che condanna prima della sentenza è barbarie, altro che libertà di stampa. Evidenziando una degenerazione già stigmatizzata dal Garante della privacy contro il “giornalismo da trascrizione, il giudice del Tribunale di Firenze ha fissato alcuni paletti in materia di deontologia professionale: “Quando le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario sono utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare o a sostituire gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti e autonomamente offensive, il giornalista deve assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie e di dimostrarne la pubblica rilevanza, non potendo reinterpretare i fatti nel contesto di un’autonoma e indimostrata ricostruzione giornalistica”.

I  “giornalisti-fotocopiatori”, cioè  coloro che ottengono le carte prima degli altri, non possono inventarsi di sana pianta colpevoli che non ci sono.   “L’attribuzione certa di un reato con le parole ‘fa bancarotta’, prima dell’accertamento del fatto stesso da parte dell’autorità giudiziaria che ha un’indagine in corso, integra senz’altro gli estremi della diffamazione”, e tale circostanza, aggiunge il giudice, “non poteva sfuggire all’autore dell’articolo, estremamente esperto nel processo penale e nella cronaca giudiziaria”. L’articolo 27 della Costituzione vale anche per loro.

Il padre di Matteo Renzi aveva chiesto  300mila euro di risarcimento, in relazione agli articoli pubblicati sulla vicenda Chil Post e Mail Service,   ma la dr.ssa  Lucia Schiaretti, giudice del tribunale civile di Firenze,  ha condannato Travaglio, una giornalista, e la società editrice “Editoriale Il Fatto spa“,  aggiungendo nel dispositivo, che che la propria sentenza dovrà anche essere pubblicata sulle edizioni di carta e on line del quotidiano. “Abbiamo combattuto una guerra all’ultima memoria, alla fine abbiamo vinto”, ha dichiara l’avvocato Luca Mirco che incassa il successo e si prepara ai prossimi scontri giudiziari avviati contro Il Fatto Quotidiano ed il suo direttore.

La condanna nei confronti di Travaglio riguarda due editoriali pubblicati il 24 dicembre 2015 e il 16 gennaio 2016. Nel primo, intitolato “I Babboccioni”, Travaglio parlando dell’indagine in corso a Genova sulla Chil Post, aveva usato il termine “fa bancarotta“; nel secondo dal titolo “Hasta la listaTiziano Renzi veniva accostato per “affarucci” a Valentino Mureddu, iscritto, secondo le cronache, alla P3. Il giudice ha giudicato diffamatorio anche il contenuto di un articolo apparso online inerente Banca Etruria e Tiziano Renzi firmato da una giornalista.

Dell’articolo del 9 gennaio 2016, a firma di Gaia Scacciavillani, invece, il giudice ha ritenuto diffamatorio il titolo: “Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari è nel mirino dei pm”. Ancora una volta il “metodo Travaglio” finisce di nuovo sul banco degli imputati: “Senza neanche leggere l’articolo, si è portati a ritenere che papà Renzi faccia parte della coop degli affari nel mirino dei pm (la Castelnuovese, ndr) ma in realtà nell’articolo nulla si dice in ordine ad indagini che riguardino personalmente Tiziano Renzi”. Il titolo a effetto, che tira in ballo il nome di richiamo seppur privo di attinenza con il contenuto, è una tecnica da manganellatori: si configura infatti “una violazione del canone di continenza formale, ovvero di un onere di presentazione misurata della notizia”.

Il terzo articolo diffamatorio porta ancora la firma del direttore Travaglio: 16 gennaio 2016, editoriale dal titolo “Hasta la lista in cui il nome di babbo Renzi è accostato a Valeriano Mureddu, additato dal giornalista come appartenente alla P3. Secondo il Tribunale: “La frase relativa a Mureddu che ‘vive a Rignano sull’Arno a due passi dalla casa del premier e ha fatto affarucci con Tiziano Renzi’, soprattutto senza che in nessuna parte dell’articolo sia spiegato quali sarebbero tali ‘affarucci’, è senz’altro lesiva della reputazione di Tiziano Renzi: rappresenta infatti una mera illazione che, dal presupposto della conoscenza tra due persone, fa derivare una non meglio precisata illecita cointeressenza, che cagiona certamente discredito e, per di più, l’impossibilità totale di difendersi, attesa la sua genericità”.

 Il bello ( in realtà il peggio) è che se andate a leggere il Fatto Quotidiano di oggi, sembra che  sia accaduto il contrario, “Il Fatto Quotidiano, come detto, è stato invece condannato a pagare 95mila euro per due singole parole contenute in altrettanti editoriali del direttore Marco Travaglio (“bancarotta” e “affarucci”) e per un titolo (“Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm”) ritenuto non sufficientemente chiaro su un pezzo giudicato invece veritiero. Tradotto: il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio”. Peccato che non pubblichino le motivazioni della loro condanna. E’ la stampa….monnezza !

 

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