L’articolo che segue, a firma di Stefano Bargellini, fa da prologo alla ripubblicazione, che il Dubbio offrirà nel mese di agosto, di “Lettere a Francesca”, il volume con gli scritti inviati da Enzo Tortora alla compagna Francesca Scopelliti.
di Stefano Bargellini*
Sono trascorsi quarant’anni dal 17 giugno 1983 quando, alle quattro di notte, i Carabinieri bussarono alla porta della stanza dell’hotel Plaza in cui Enzo Tortora stava dormendo, ignaro della sporcizia che stava per sommergerlo. Lo scorso 17 giugno, nell’anniversario, utilizzando i documenti originali, Aurelio Aversa ha raccontato su Radio Radicale la tragedia di un uomo onesto incarcerato senza aver fatto nulla di male.
Il pubblico ministero: “Il signor Enzo Tortora è un camorrista… Ma lo sapete voi signori che l’ultima persona che i giudici napoletani volevano portare in questa vicenda era Enzo Tortora? Sapete voi perché Enzo Tortora è in questo processo? Perché più si cercavano le prove della sua innocenza, più uscivano le prove della sua colpevolezza!”. Il presidente del Tribunale che consente la prosecuzione del confronto fra Tortora e Melluso “tanto per non dire che io non do spazio alla difesa”. Il coraggio dell’imputato prima della camera di consiglio in appello: “Io sono innocente, io spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi”. Ascoltare l’accusa, rivivere la condizione d’impotenza di una persona irreprensibile costretta a difendersi da imputazioni più assurde che infondate, lascia un senso di vertigine.
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Se Vent’anni dopo è l’ottimo seguito di un magnifico romanzo, Quarant’anni dopo potrebbe essere il titolo dell’attuale replica di una tragedia. Il caso Tortora non è un caso ma il frutto di un sistema. Quello che ha colpito e poi contribuito a uccidere Tortora non è un errore giudiziario ma un abominio che avrebbe dovuto spingere, anzi costringere, la magistratura a profonde trasformazioni. Viceversa, i colleghi penalisti denunciano che orrori simili continuano a verificarsi nell’indifferenza di chi li crea o li consente. Qualche considerazione.
1. I magistrati che inquisirono e condannarono Tortora fecero tutti carriera. Nessuno subì un qualsiasi provvedimento disciplinare o vide rallentata la normale progressione professionale.
2. Uno dei magistrati che sostenne l’accusa nei confronti di Tortora venne eletto al Csm. Cioè i magistrati italiani scelsero uno degli inquisitori di Tortora quale rappresentante nel loro organo di autogoverno. Circostanza che conferma quale insegnamento la magistratura abbia tratto dal sacrificio dell’imputato.
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3. Non fece carriera il consigliere Michele Morello, estensore della sentenza d’appello che assolse Tortora. Dopo la decisione alcuni colleghi gli tolsero il saluto. A lui andrebbe invece intitolata almeno un’aula della Corte d’appello di Napoli, non solo per l’opera che ha saputo svolgere nella circostanza, ma per l’attitudine a rappresentare i tanti magistrati indipendenti, preparati e schivi ai quali sono affidate le nostre cause. Non sempre, purtroppo.
4. La mancanza di una concreta valutazione dell’attività professionale dei magistrati è probabilmente la causa principale del malfunzionamento della giustizia. Il deputato Enrico Costa ha ricordato che il 99,6% (novantanove virgola sei per cento) dei giudici italiani ottiene una valutazione positiva e che dal 2010 i magistrati condannati in applicazione della legge sulla cosiddetta responsabilità civile sono stati 8 (otto). Più o meno 1 ogni 2 anni. Che la legge sull’asserita responsabilità civile sia stata approvata nel 1988 a seguito del processo Tortora e del successivo referendum abrogativo conferma che quanto accaduto al popolare presentatore costituisce per alcuni più un fastidio da rimuovere che una lezione da tenere a mente.
5. Non essendo generalmente coinvolta la libertà delle persone, nel settore civile parliamo di errori e non di orrori. Anche quando le inadempienze e i ritardi comportano conseguenze gravi. Il discorso resta comunque il medesimo: fino a quando i giudici saranno tutti egualmente eccellenti, tutti maratoneti da due ore e dieci, tutti centometristi da dieci netti, dubito che i cittadini potranno guardare all’amministrazione della giustizia con maggiore fiducia.
6. Nella (irrealistica) attesa che una classe politica impreparata e impaurita riesca a imporre criteri di razionalità, efficienza e uniformità all’organizzazione giudiziaria e nella (impossibile) aspettativa che la magistratura provveda a riformare se stessa, gli avvocati costituiscono l’unico appiglio cui i cittadini possano aggrapparsi. Che, almeno questa, “non sia un’illusione”! (così come è inciso sulla lapide di Enzo Tortora)
*tratto dal quotidiano IL DUBBIO