di Federico Pirro*
Il lungo incontro di ieri a Palazzo Chigi fra il presidente Conte, accompagnato dai ministri Patuanelli e Gualtieri, ed i Mittal, padre e figlio, è servito almeno a riaprire un dialogo fra governo italiano ed azienda, circa la possibilità che quest’ultima – a nuove condizioni chiaramente richieste dal vertice della holding franco-indiana – conservi la gestione del Gruppo Ilva, finalizzandola alla sua acquisizione.
Perché ciò sia possibile il magnate deve avanzare al Tribunale di Milano richiesta di caducazione dell’istanza di recesso, presentata invece da AmInvestco Italy all’inizio di novembre dal contratto per la locazione prima e l’acquisto poi del Gruppo siderurgico italiano in amministrazione straordinaria.
Il dialogo fra le parti dovrà ora procedere con incontri full immersion per verificare se sussistano le condizioni: a) per la redazione di un nuovo e più credibile piano industriale, in uno scenario di mercato di bassa congiuntura, ma prevedibilmente in rialzo dal prossimo anno; b) per quantificare e riassorbire esuberi di personale che ne derivassero; c) per innovazioni tecnologiche nel processo produttivo del sito di Taranto; c) per l’ingresso di capitale pubblico nella complessa operazione di rilancio.
Il confronto – è inutile nasconderlo – non sarà affatto facile e neppure breve, e conclusioni positive non sono affatto scontate, anche se, da quanto riportato sulla stampa, parrebbe di capire che le parti siano intenzionate a raggiungere un accordo. Nel frattempo nella grande fabbrica tarantina, pur avendo l’azienda deciso di non spegnere gli impianti – come invece aveva comunicato di voler fare nelle settimane scorse – scarseggiano le materie prime che ne consentano l’esercizio, sia pure al minimo, e molto lentamente stanno procedendo le operazioni di pagamento dello scaduto alle aziende dell’indotto, i cui dipendenti presidiano da giorni le portinerie dello stabilimento, perché se i loro titolari non si vedessero saldare le fatture emesse per lavori già eseguiti, di conseguenza non potrebbero corrispondere i salari ai loro collaboratori.
Come dicevamo poc’anzi. il confronto fra esecutivo e rappresentanti aziendali non sarà affatto facile, soprattutto perché da quanto starebbe emergendo dalle inchieste delle procure di Milano e Taranto, la situazione di cassa di AmInvestco Italy sarebbe molto delicata e che, proprio perché in tali condizioni, aveva determinato la volontà della società di abbandonare la partita dell’Ilva, utilizzando come pretesto il venire meno dello scudo penale per impresa e suoi dirigenti durante il periodo di realizzazione del piano ambientale.
A fine anno le perdite stimate della direzione finanziaria dalla società ammonterebbero a circa 700 milioni: un dato pesante che avrebbe azzerato così le risorse previste dalla holding per l’operazione, o almeno quelle messe in budget per l’anno in corso. Perdite che si sono venute accumulando nel corso dell’anno, che hanno portato fra l’altro ad un prima cassa integrazione ordinaria dal 1° luglio per 1.395 addetti, poi rinnovata a fine settembre per 1.295 occupati, e che oggi e per le prossime settimane – se non vi saranno apporti di nuovi liquidità ad horas – non consentirebbero un esercizio sia pure al minimo dell’attività degli altiforni.
Insomma, una situazione di conto economico pesantissima che ha reso evidenti alcuni errori gestionali e previsionali del management preposto alla guida dello stabilimento di Taranto, francamente impensabili, lo confessiamo, in dirigenti del primo produttore di acciaio al mondo.
Allora – alla luce di quanto scaturito sinora dalle inchieste della magistratura, della precaria situazione finanziaria di AmInvestco Italy e degli errori del top management del gruppo – verrebbe spontaneo chiedersi: ma si è proprio sicuri a questo punto che Arcelor Mittal sia il miglior gestore – sia pure supportato da capitale pubblico – del gruppo Ilva? E poi a quanto dovrebbe ammontare l’apporto cash di un partner pubblico in una società da ricapitalizzare che deve portare innanzi il piano di risanamento ambientale, le manutenzioni ordinarie e straordinarie ormai indifferibili e le innovazioni tecnologiche? E il privato a sua volta quanto dovrebbe investire nell’operazione? Fra pagamento dell’intero gruppo (1,8 miliardi), investimenti ambientali (1,15 miliardi) e piano industriale (1,25 miliardi) erano stati previsti a suo tempo da ArcelorMittal 4,2 miliardi di euro. Ed ora? Su che basi economico-finanziarie si può costruire un new beginning per l’Ilva e per il suo sito ionico? Ed inoltre siamo proprio sicuri che la holding franco-indiana non abbia bisogno per Taranto di un massiccio supporto almeno manageriale degli acciaieri italiani che sembrano decisamente migliori per capacità gestionali del management di Arcelor?
Ci si prepari dunque ad assistere ad una trattativa molto complessa, si lavori comunque ad un “piano B” in caso di definitivo recesso di Arcelor – con tutte le conseguenze giudiziarie prevedibili – augurandosi che nel frattempo il Siderurgico ionico non collassi trascinando nel baratro l’economia della Puglia e del Mezzogiorno, con danni pesanti anche per il resto del Paese.