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22 Novembre 2024 10:57

Una campagna lunga sei mesi

Una vittoria del Pd in queste città darebbe forza e credibilità al progetto di Renzi, viceversa una sconfitta convincerebbe ancora di più gli oppositori che è possibile mettere in difficoltà il premier, se non addirittura dargli una spallata.

di Bruno Manfellotto

All’inizio sembrava che delle elezioni per il sindaco di Napoli, Roma, Bologna, Milano, Torino, a Renzi importasse poco o nulla. Quasi la cosa non lo riguardasse. Roba del partito, non sua. Così, si almanaccava, se dovesse andargli male, potrà sempre dire che lui non c’entra; ma se dovesse andargli bene, il successo comunque gli apparterrà. E poi, si spiegava, non è questo l’appuntamento che conta per Matteo: è il referendum di ottobre sulla riforma costituzionale la vera scommessa-test per lui, per il suo programma, per il suo governo. L’arma totale destinata a rivoluzionare il Paese e anche i rapporti di forza interni al Pd. Forse definitivamente. Poi però tutto è cambiato. Cosa? E perché?

Pochi giorni fa, con un appello ai colonnelli del Pd, il premier-leader ha invocato unità, una tregua di sei mesi, basta con liti e dissensi, è ora di condurre tutti insieme la battaglia per il referendum, andare in giro a spiegare la ragioni della riforma. Insomma Renzi il rottamatore, l’accentratore, il re del “giglio magico” aperto solo ai fedelissimi sta cercando di ridare vita al partito, di rilanciarlo. E per riuscirci chiede aiuto all’apparato. L’ultima volta in cui nelle città erano apparsi i gazebo con i militanti del Pd era stato per le primarie, poi tutto era tornato nel chiuso delle stanze di Palazzo Chigi e nelle aule parlamentari. Cambio di strategia. Per più di una ragione.

CdG Renzi_Boschi
nella foto il premier Renzi ed il ministro Boschi

Renzi, eccone una, sa che per il successo del referendum bisogna portare alle urne almeno venti milioni di italiani e spingere la grande maggioranza di questi a votare sì convincendoli che si tratta di una riforma buona e importante. Per riuscirci non bastano Twitter, Facebook e botta e risposta on line: bisogna girare città e paesi, spiegare, argomentare, cancellare obiezioni. Come si faceva una volta. Perché sia possibile, è necessario che tutto il partito si mobiliti, compresi militanti e dirigenti di una minoranza tutora riottosa e piena di dubbi: non ne sono entusiasti ma, pur se controvoglia, si daranno da fare, come hanno lasciato intendere le dichiarazioni per il “” di leader non certo in odore di renzismo come Pierluigi Bersani ed Enrico Letta.

L’altra ragione che spiega il cambio di passo è che Renzi si è via via reso conto che la strada per la vittoria non è poi così liscia e spianata. Aver impostato da subito la consultazione come un referendum sulla sua stessa permanenza a Palazzo Chigi, è bastata per risvegliare il sogno di una Grande Coalizione dell’Opposizione nella quale convivano leghisti e grillini, berlusconiani e postcomunisti, uniti solo dalla voglia di dare una bella lezione al premier segretario. Forse anche per questo, Renzi sta archiviando l’argomento forte della personalizzazione (anzi, accusa di questo il fronte del No) e parla più di contenuti: i risparmi di un Senato dimezzato e soprattutto la scelta tra conservazione e inciucio da una parte e progresso e innovazione dall’altra.

In questo nuovo clima, anche le amministrative del 5 giugno sono tornate a pesare. A Roma Roberto Giachetti tiene le posizioni nonostante l’alito sul collo della grillina Virginia Raggi: in fondo, se perdesse al ballottaggio sarebbe la conferma di sondaggi e sentori; ma a questo punto se dovesse vincere, sarebbe un trionfo. Anche a Torino Piero Fassino deve fare i conti con i Cinquestelle, ma è in testa nelle intenzioni di voto. La partita politica forse più significativa si gioca però a Milano dove il candidato Beppe Sala, scelto personalmente da Renzi, non è uomo di partito e proviene da quella cultura manageriale che ha prodotto anche il suo avversario, Stefano Parisi, berlusconiano con un passato a sinistra: i due sono a un’incollatura. Ora, che lo si voglia o no, l’esito del voto condizionerà inevitabilmente anche il referendum.

Una vittoria del Pd in queste città darebbe forza e credibilità al progetto di Renzi, viceversa una sconfitta convincerebbe ancora di più gli oppositori che è possibile mettere in difficoltà il premier, se non addirittura dargli una spallata. Perché il giorno stesso in cui si insedieranno i nuovi sindaci, comincerà la campagna per il referendum. E la resa dei conti nel Paese e nel Pd.

  • editorialista del Gruppo  L’ESPRESSO
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