di Silvia Signore
Non avrei mai pensato di dover scrivere un articolo in prima persona, ma memore dei miei trascorsi come atleta professionista nella disciplina del nuoto e sempre più legata al settore sportivo con il mio lavoro giornalistico mi sento oggi portata ad affrontare una riflessione che ho il piacere di condividere con i lettori, perché vissuta in prima persona.
La riflessione odierna nasce in seguito ad un fatto di cronaca avvenuto nel mondo del tennis, che ha visto la tennista britannica Emma Raducanu, scoppiare in lacrime nel bel mezzo di una partita durante il torneo di Dubai alla visione di un uomo nel pubblico riconosciuto dalla stessa come il suo stalker.
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Questo avvenimento, che porta con sé tanta tristezza, e che ha visto la tennista concludere la partita con la sua sconfitta, ha scaturito in me la riflessione che quest’avvenimento possa aver contribuito all’esito negativo della sua prestazione con l’obiettivo di voler sottolineare quanto le emozioni, le alterazioni e fluttuazioni ormonali siano determinanti sulle capacità condizionali e di conseguenza sulla prestazione dell’atleta “donna”.
Perché essere donne ed essere atlete è un argomento tanto difficile quanto delicato da trattare, perché il mondo dello sport ha sempre creato una forte disuguaglianza tra lo sport maschile e quello femminile. Disuguaglianza che oggi mi sento di confermare d’essere, perché si , essere donna ed essere un atleta è davvero diverso da essere un atleta uomo, perché essere donna è più difficile. Inutile voler sottolineare che queste mie riflessioni tendano verso l’universo femminile, perché solo noi donne sappiamo quanto sia difficile convivere con tutte le problematiche che ogni mese puntualmente si presentano, lottare con le nostre emozioni lottare con i nostri dolori fisici che ne conseguono e vivere una vita che agli occhi degli altri invece sembra essere la normalità.
Questo discorso odierno ha una valenza che va oltre alle oggettive differenze anatomiche, fisiologiche e psicologiche che esistono tra uomo e donna, il mio è un discorso sociale e culturale che ha come obiettivo quello di sensibilizzare questo tema, con la speranza che possa contribuire ad aumentare il valore dello sport femminile aiutando a capire quanto i sacrifici, gli sforzi e le rinunce fatte dalle atlete siano nettamente, a mio avviso, maggiori rispetto a quelli compiuti dagli uomini.
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Le grandi rinunce
Le disuguaglianze nello sport esistono da sempre e negli anni si sono sempre più ridotte. Solamente fino a qualche decennio fa le donne infatti non potevano ancora competere in diverse discipline sportive, basti pensare che la maratona femminile fu introdotta nelle Olimpiadi del 1984. Queste discriminazioni nascevano dal fatto che il fisico femminile era ritenuto poco adatto ai grandi sforzi e alle forti sollecitazioni. In tempi ancora più remoti era convinzione medica che le donne non dovessero praticare attività sportive al fine di tutelare gli organi riproduttivi.
Per secoli abbiamo visto come la maternità ha costituito forse il più grande ostacolo della pratica sportiva femminile. Soltanto in tempi relativamente recenti si è scoperto che questo concetto non solo non è assolutamente vero, ma al contrario secondo alcune teorie la funzione riproduttiva può addirittura essere un vantaggio per le donne che praticano sport. Nel mondo odierno bisogna analizzare quanto la tematica della maternità rimanga un tema ancora molto delicato e difficile da trattare, basti notare infatti quanto la scelta di avere un figlio possa influenzare e condizionare la carriera di un atleta donna, Sono molte le donne infatti costrette a rinunciare alla maternità durante la propria carriera sportiva, ed alcune decidono di aspettare la fine della stessa per concedersi la gioia di essere mamme. Il motivo predominate di questa scelta è che in Italia per le atlete che vanno in maternità non esiste alcuna forma di tutela da parte dello Stato, non venendo considerate come lavoratrici.
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“Quando le atlete sono definite dilettanti e in realtà non lo sono, la prima situazione di discriminazione si concretizza nel momento della gravidanza. Sono vent’anni che chiediamo per le atlete il diritto di essere riconosciute come professioniste quindi come lavoratrici» ha detto Luisa Rizzitelli, presidente e fondatrice dell’associazione Assist che si batte per la tutela dei diritti delle donne nello sport.
Durante la gravidanza e dopo il parto, le atlete affrontano difficoltà fisiche, emotive e sociali che possono influire sulle loro prestazioni e quindi sulle opportunità di carriera, scelte queste che condizionano la decisione di diventare mamme. La maternità non dovrebbe essere un ostacolo, ma una parte integrante del percorso delle atlete verso il successo e il benessere. Le atlete si dedicano alla loro carriera sportiva, ma spesso devono confrontarsi con una serie di problematiche legate alla maternità, tra le quali la discriminazione, l’accesso alle tutele lavorative e la pressione per poter ritornare rapidamente alle loro discipline sportive.
Negli ultimi anni, sono emerse storie di atlete che hanno affrontato sfide significative quando hanno deciso di diventare madri. Sono venute alla luce storie ed esperienze negative di contratti interrotti, perdita di opportunità professionali e mancanza di supporto finanziario adeguato durante il periodo di gravidanza e dopo il parto. Situazioni queste che comprovano quanto le atlete vengano giocoforza costrette per la loro carriere a rinunciare alla gioia più grande cioè, quella di diventare mamma.
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Il divario salariale tra sport maschile e sport femminile
Un altro grande elemento di disuguaglianza tra uomo e donna nello sport è legato alla questione della retribuzione economica, un argomento questo che meriterebbe una maggiore attenzione da parte delle federazioni e società sportive, e che riguarda non solo il gap salariale ma anche le strutture di allenamento, i contratti sportivi, la visibilità e la rappresentanza negli organi che gestiscono e comandano lo sport nel mondo.
Basti pensare che i premi riconosciuti alle atlete, sia a livello nazionale che internazionale, subiscono una riduzione che arriva sino al 50% in meno per i campionati femminili rispetto a quelli maschili nell’ambito della stessa specialità.
Il mondo del calcio dimostra infatti che la parità salariale è ancora lontana e l’esempio di Alex Morgan e Megan Rapinoe, note per essere le due calciatrici più famose la mondo che hanno portato a casa nel 2022 quasi 6 milioni di dollari, percependo uno stipendio nettamente inferiore rispetto alla stragrande maggioranza dei calciatori in tutto il mondo.
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La differenza fisica oggettiva
Nonostante si voglia far credere che così non sia, le disuguaglianze tra i generi sono oggettive e sempre più radicate nel mondo odierno, che vedono protagonista della società la contrapposizione tra il sesso forte e il sesso debole, e le donne che vengono troppo spesso identificate in quest’ultimo.
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Mi sento quindi di voler esprimere, che alla base della mia riflessione odierna vi è la certezza di essere noi donne il sesso forte, vivendo in una società che ci discrimina, una società in cui il nostro salario è nettamente inferiore a quello di un uomo, una società in cui veniamo messe davanti alla scelta di seguire la carriera o essere mamme, costrette a convivere con il ciclo mestruale, perché si, l’ho detto. e nominarlo non può e non deve essere un tabu perché non si può provare vergogna in quanto esistente e reale, oltre a considerare tutti gli sbalzi emotivi e le impossibilità fisiche che ne derivano. Donne costrette quindi a vivere in una società che sin troppo spesso ci giudica, soprattutto come inferiori, e quindi vivere in un mondo che risulta essere più difficile per noi donne. Ed è tutto questo in realtà che ci rende più forti.