di Luciano Violante *
I sostenitori della riforma costituzionale hanno una visione realistica: non è perfetta ma fa funzionare meglio il Paese. Gli avversari criticano le soluzioni adottate ma non propongono un progetto alternativo. Nessuno di loro difende l’esistente; d’altra parte molte importanti personalità del No hanno costituito, composto o presieduto comitati e commissioni per la riforma costituzionale. Non possono difendere oggi ciò che ieri hanno tentato di cambiare.
La differenza tra il SI e il NO è netta: il Sì ha una concreta proposta di riforma e ha raccolto le firme per permettere ai cittadini di pronunciarsi. Il No, al di là delle critiche, a volte fondate, a singole regole, non ha una proposta alternativa e non ha neanche raccolto le firme per permettere ai cittadini di pronunciarsi.
Forse il No è ingessato dalla eterogeneità delle componenti e delle personalità, che oscillano tra il superpresidenzialismo e l’assemblearismo parlamentare. È tuttavia difficile che personalità così autorevoli non abbiano una idea concreta dell’Italia del prossimo futuro. Né sarebbe sufficiente sostenere che la riforma peggiorerebbe le cose rispetto alla situazione attuale; si tratterebbe di un argomento stupidamente propagandistico.
Il referendum del 4 dicembre non riguarda solo alcune regole giuridiche. Riguarda il parlamento, il governo, le regioni, il riconoscimento di alcuni nuovi diritti dei cittadini e delle minoranze parlamentari. Riguarda la società e le istituzioni, quindi l’intero Paese. Per queste ragioni non è assimilabile ad alcun altro referendum recente. Neanche a quello che si tenne nel 2006 sulla riforma approvata dal centrodestra guidato da Silvio Berlusconi. Quella riforma, pur toccando diversi aspetti della Seconda parte della Costituzione, era incentrata attorno al federalismo e su questo terreno venne sconfitta perché al Nord se ne temevano i costi e al Sud si temeva l’abbandono da parte dello Stato nazionale.
Il prossimo referendum ricorda piuttosto quello del 1946 sull’alternativa tra Monarchia e Repubblica. Anche lì si decideva l’Italia del futuro e fu grande il coraggio degli italiani che votarono per la Repubblica, una forma di Stato che non avevano mai conosciuto e che tuttavia faceva presagire un’Italia migliore. Decideremo sull’Italia di domani, cosa dev’essere, come e quando costruirla. Se quella disegnata dalla riforma non va bene, ci si dica quale è un’alternativa che abbia almeno la stessa incisività e tempi analoghi di attuazione
Se ci sono singole regole da correggere, e ce ne sono, lo si potrà fare subito dopo, come accadde per la Costituzione del 1948, recependo le osservazioni dei contrari alla riforma. Occorre la consapevolezza di un drammatico problema politico: siamo instabili e lenti nelle decisioni, perdiamo competitività, non garantiamo il futuro dei giovani. I cittadini e le imprese non devono affogare per le nostre schermaglie giuridiche o per le nostre avversioni personali. Gli italiani non possono restare nella palude in attesa dell’ottimo che verrà chissà quando. Abbiamo il dovere di impegnarci per un dibattito realistico, in positivo, sull’Italia da costruire e sui tempi di questa costruzione. La perfezione delle singole soluzioni tecniche è importante; ma è più importante il Paese che lasceremo a chi verrà dopo di noi.
Confrontarsi con concretezza e rispetto reciproco favorirebbe un voto responsabile e la civiltà dei rapporti politici. Abbiamo bisogno di disegni utili realizzabili in tempi brevi. Altrimenti, di fronte alle critiche che vengono mosse alla riforma, verrebbe alla mente una riflessione di Keynes sul capitalismo: “…non è bello, non è intelligente, non è virtuoso… Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto restiamo estremamente perplessi“.
- magistrato, deputato ed ex-presidente Camera dei Deputati