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5 Novembre 2024 13:19

Violenza nei videogiochi o violenza sui videogiochi ?

di Paolo Campanelli 

Antico è il malcostume di percepire come “ispirazione del male” tutto ciò che, per superficialità o per divario generazionale, non si conosce. Uno dei bersagli più gettonati in questo senso è sempre stato il settore del divertimento.

Sin dall’inizio del XX secolo vi sono, infatti, tracce di supposti collegamenti tra vari ed efferati crimini e romanzi investigativi; successivamente la letteratura venne sostituita dal cinema noir, poi dal Rock, quindi dai fumetti e, più recentemente, dai videogiochi.

Ciascuna di queste forme espressive è stata accusata di “avere cattiva influenza” sui fruitori, sulla ipotesi che un coinvolgimento dal punto di vista psico-emotivo, di volta in volta superiore, possa influire sul comportamento, e quindi diventare ispirazione di violenza ed illegalità.

Questa tipologia di superficiali detrattori, trova nuovi slanci ogniqualvolta ci si deve confrontare sociologicamente con l’emergere di nuovi fenomeni.

Da “addetto ai lavori” ho deciso di scrivere queste note dopo aver sentito una scrittrice dal fulgido passato fare propria una superficiale tesi di certa stampa e sostenere che il male “di moda” ovvero la violenza comunicativa dell’ISIS, è direttamente ispirata dai videogiochi.

 Nonostante anni e anni di ricerche, i risultati sul collegamento tra criminalità e narrativa sono contrastanti. Altre ricerche hanno però confermato che i videogiocatori regolari tendono a sviluppare riflessi molto superiori e maggior coordinazione rispetto a persone che si tengono alla larga da tutto ciò di più avanzato del Solitario al computer.

Dato particolarmente interessante è che la stragrande maggioranza dei dissensi riguardo ai videogiochi vengono non da educatori o da psicologi sociali e del comportamento, bensì da genitori dalla impegnata vita lavorativa, da anziani opinionisti tuttologi e da piccoli gruppi autoreferenziali dal dubbio livello di conoscenza dell’argomento.

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Ma allora, su che effettiva base si basano i detrattori, soprattutto sul territorio nostrano? La prima di queste basi, il fatto che i videogiochi siano considerati “roba per bambini”, può essere ricondotta a uno residuo comportamentale che ha avuto origine durante gli ultimi cinquant’anni in Italia, più precisamente in corrispondenza con l’espansione della popolarità dell’animazione. I primi film animati erano, infatti, basati sulle fiabe per bambini della Disney, o i cartoni Hanna&Barbera e i Looney Toons, famosi per i temi leggeri e scanzonati, ciò li rendeva molto divertenti per i bambini, che ne risultavano inevitabilmente attratti.

Dato il periodo di rivoluzioni sociali, una volta che i ragazzi maturavano abbastanza da interessarsi ai problemi sociali, impiegavano il loro tempo libero fuori casa, a contribuire al risolvere i problemi che piagavo la società dell’epoca. Quando le animazioni giapponesi, che a differenza dell’Europa differenziavano il loro contenuto televisivo in 4 fasce di età differenti (bambini, adolescenti, post-puberali, adulti), giunsero in Italia all’inizio degli anni ’80, il cartone animato era ormai “roba per bambini” e molti si trovarono inorriditi di fronte ad alcuni dei contenuti che a loro parere i nipponici propinavano ai loro giovani virgulti, quando in realtà si trattava di argomenti indirizzati a persone ormai nella tarda adolescenza (uno degli esempi principali è il famosissimo Dragon Ball, con il personaggio del Maestro Roshi “delle Tartarughe” come archetipo del “vecchietto pervertito” ma di buon cuore che un quindicenne troverebbe esilarante, ma che nessuno vorrebbe far vedere ad un bambino al di sotto dei dieci anni).

 Con queste stigmate sull’animazione, le limitazioni tecniche dei giochi attirarono la stessa attenzione, in quanto persino il più realistico dei videogiochi dell’epoca era “cubettoso” e tutt’altro che visivamente comparabile al “in carne e ossa”, limitazioni che si avvertirono sino a tempi relativamente recenti, con la versione videoludica per il Nintendo64 di 007: Goldeneye.

Ormai sotto il macigno dell’ignoranza, le innovazioni tecnologiche del ventennio successivo hanno portato il realismo, o il surrealismo in altri casi, del videogioco a un livello molto elevato, ma il pregiudizio è rimasto inamovibile, salvando unicamente, e solo in parte, i giochi sportivi.

 Sin dalle origini, era nomale trovare videogiochi “violenti” sul mercato, fosse un astronavina a forma di triangolo che spara a dei meteoriti evitando vi finirne brutalmente schiacciata, un soldato con l’obiettivo di uccidere un redivivo Hitler e i suoi seguaci o un piccoletto che dava la scalata al campionato di boxe, principalmente per via della “facilità” con cui era possibile crearli, e sin dal 1992 la quasi totalità dei videogiochi in vendita in Europa era analizzato e catalogato per fasce di età, in maniera non indifferente dai film.

L’Entertainment and Leisure Software Publishers Association prima, e dal 2009 il più preciso PEGI, hanno suddiviso e categorizzato i titoli per l’età consigliata e per i contenuti dei titoli: un gioco in casa Disney raramente non riceve il marchio 3+ (dove il numero indica l’età) e la Nintendo, con poche eccezioni a tutt’oggi, mantiene i suoi titoli a 7+. Differente è invece per titoli famosi per la loro surreale violenza, con 16+ e 18+ come target, in maniera analoga ai film thriller o horror, questi ultimi, però non hanno mai superato il 5% dei titoli complessivi in vendita a livello nazionale o scaricabili dai rivenditori autorizzati on-line.

Oltre all’età, il PEGI ha un’ulteriore categorizzazione per contenuti: sono infatti presenti una serie di simboli che stanno ad indicare che cosa si trova nel gioco; si ha così il simbolo di un ragno per i giochi paurosi, quello di dadi se sono presenti riferimenti o minigiochi basati sul gioco d’azzardo (che però è inteso più in largo del senso comune, categorizzando al suo interno anche giochi più leggeri come Burraco o Scala40), il simbolo di una vignetta con i simboli tipici delle imprecazioni, una siringa nel caso si tocchi l’argomento droghe o medicinali (talvolta presente anche se si tratta di composti chimici immaginari), il simbolo del pugno in caso di violenza, tanto realistica quanto cartoonesca, e il simbolo del rapporto sessuale in caso sia presente nudità esplicita o rapporti erotici, indipendentemente da che cosa venga mostrato o meno.

 Ciò detto, il più grande errore che tutt’oggi è fatto, tanto in frequenza quanto in “quantità”, è il definire il gioco “per bambini piccoli” ignorando il chiaro e ben visibile bollino PEGI. Altro errore diametralmente opposto è ripiegare unicamente sul PEGI per i giochi con la capacità di multiplayer on-line, in quanto, nonostante la presenza di alcuni blocchi, è l’utente ad aver il controllo pressoché totale su cosa viene detto o fatto, e ciò ha già in passato reso alcune comunità di videogiocatori sconsigliate per i più giovani indipendentemente dal gioco in considerazione.

 Per concludere, il videogioco continuerà ad essere definito la radice di tutti i mali da persone incuranti e ignoranti, almeno finché qualcos’altro arriverà a prenderne il posto, ignorando altre possibilità. Chiudo con una citazione da un Anonymous italiano tanto pungente quanto azzeccata al caso: “Ho visto molta gente ritenere il Calcio l’espressione più pura di onestà e cordialità e dare contro ai videogiochi per la loro violenza, eppure non ho mai visto la polizia intervenire” ad un LAN party.

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